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OSPITI
... chi lo desidera ha spazio di parola...

 


 
IL MARE DI RISICA

Leonardo Sciascia propose un termine per parlare della concomitanza tra l’ambiente e il carattere siciliano: sicilitudine, come aveva fatto a suo tempo il poeta Senghor con negritudine. Io amo di più parlare di profumo di Sicilia e quando sento questo profumo sento la gioia di vivere come non mai, e se questo profumo porta con se quello inconfondibile del mare, del suo mare, questa diventa più intensa. E se poi sono dei versi a ripropormelo questa diventa festosa. Ciò mi si è riproposto leggendo le poesie di Risica. Non desidero soffermarmi su un’analisi critica dei versi del poeta, altri lo hanno fatto in maniera più qualificata di me. Voglio solo aggiungere una breve considerazione. Quei versi che cantano il mare, elemento associato al mio sentire di uomo sono versi a tutto tondo di questa meravigliosa effettività, corposi, incisivi, che richiedono un animo garbato che sappia interpretarla e restituirle tutte le sfumature su uno sfondo poetico energico e dai toni più vari e meravigliosi e questo Risica lo fa in maniera degna di un autentico cantore: Ulisse gabbiani spiagge d’inverno pescatori falò stella polare gocce di sole arenile.
Quel che mi auguro è perciò auguro a Risica che ci possa ancora concedere la gioia di poter leggere i suoi versi, riaverlo ancora qui a Roma con noi, perché è davvero raro che in questa raccapricciante congiuntura dei nostri tempi, si possano ancora coltivare queste amicizie e questi interessi.
Concludo dicendo che mi sento fra coloro ai quali Risica ha dedicato il libro: io porto il Mare dentro di me e non smetto di ascoltarne il richiamo.

Alberto La Chimia



le pitture di
AGNESE DI VENANZIO

         

 


Affreschi e disegni di
LUIGI COLLETTI

    

 


ADRIANA CENTI


Il borgo


Paesaggio


Le torri di Ascoli Piceno (olio su tela)

 


GIUSEPPE SMIRNE


Volto di donna

 


VINCENZO LA CHIMIA


Autoritratto


Ritratto del pittore Pasquale Riga

 




Agnese Di Venanzio

BELLA

Bella,
quale vento sferzava i tuoi capelli?
Forse quello del domani
del tempo imprevisto e
dinanzi a te sbigottita
le lancette dell'orologio
improvvisamente
hanno battuto un altro ritmo
un'altra ora.

Fino ad oggi.

Fausta Genziana Le Piane

 

 
LUCA POLICASTRI


vincitore del Premio Franco Costabile 2009:
Passi nella solitudine

 

 
FEDERICO SMIRNE

Rose a Bianchi (Calabria)

Biamchi... bianca per la neve!



STELLE MARINE

Scivolare
contro una casa di periferia
sotto un murale d'amore,
scritto
con un pennarello rosso,
inarcare la schiena
ed aprire i pugni.
Un'onda verrà
e lascerà sul palmo bagnato
stelle marine
da appuntare
come spille
siul bolero della notte.

Fausta Genziana Le Piane

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QUALCOSA DI STRANO
Adriana Centi

In ripida scesa
scroscia la pioggia,
il fiume muggisce e s’ingrossa,
furioso il vento
foglie e rami all’albero strappa,
cade il nido non c’è più difesa;
nel turbinio
impaurite le case si tengono strette
e mille e mille voci a dire:
qualcosa, qualcosa di strano
nell’aria serpeggia.

 

DISPERAZIONE
Adriana Centi

Per te cos’è rimasto?
Al tuo dolente passo
la strada non s’accorcia
e quel carro sgangherato
lo raggiungi quando è fermo.
Per te cos’è rimasto!
Solo vuoti sacchi,
nemmeno un chicco di riso
disperazione sì
e fame, fame che toglie il senno
mani sempre vuote
tese a mendicare
quello che non c’è
e il cuore, il cuore stanco cede.
Dio, mio Dio che pena!

 

MADRE
Adriana Centi

Su diafano volto
morbide ciglia
celano spente pupille.
Tacito il livido labbro
e le tue belle mani,
prive del gesto,
stanno chete
su immoto petto,
in pace.
O madre,
mai più sul mio capo
la tua tenera carezza.

 

VORREI
Adriana Centi
Poesie, 1994-1997, Nuova Impronta Edizioni, 1998

Vorrei la tua presenza
riascoltare la voce dell’innocenza
e cieli sereni
un vento benigno
che porti via gli affanni
per piedi nudi
accendere il camino
e perdonare Caino

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FRAMMENTO
Franco Costabile, 1946 – da “La via”, inedita

Sopra al cuore della città che dorme
Un cielo di vetro ed una luna
Accesa come a luce d’olio.
L’anima s’è assopita
Fra due nubi di cenere immobili
Leggera stupita.

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QUESTO E' POESIA
Italo Evangelisti
La luna storta, TerreSommerse, 2007

Sento
movimenti di truppa
nelle retrovie
delle viscere e del sesso

Sento
strazianti adesso
le sodomie degli affetti
gli zoccoli dei barbari
arroganti
calpestare la terra
indifferenti
alle morìe di insetti e radici
al sudore delle orchidee
in serra

Questo è poesia
radicare un verso dentro
poi mettere il viva voce e via
aspettare
se come una freccia fa centro
vedere se brilla
come un’unghia laccata
se manda un profumo
se è una voce che strilla
da fermare per strada
chi passa ed ascolta

o se nessuno si volta.

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QUANDO LE PAROLE
Maria Pia Sozzi
Complice il silenzio, Pagine, 2006

Quando le parole
Si perderanno
Nel fiume della vita,
tu
pescatore di versi,
getta la rete…
lancerò manciate di sale
farò del fiume oceano…
la tua rete
sarà leggìo

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SINE TITULO
di Letizia Lanza

Cavalli

Fuga di zoccoli
tra fluttue criniere.
Calida possanza sbrigliata
per generosità di muscoli.
Corrusco essudare.

Furia et concitatio
in attimi sconvolti
vivipulsanti.

Umidío vago di
froge –
a sacra pretesa
d'amore.

 

Gea

Fonte assetata:
rus arido-pioggia.

Tormento esausto di
natura ignuda.

 

Viva-vita

Felicitas vivendi –
ineffabile licor.

Favole arcano-magiche
in tragico ventre.

 

Aves

Zigzagare di pioggia –
fremire d’ali.

Ricerca tremida di
cibo in
pena-impegno di vita.

 

Cat

Felicità materica in molle
attorciglio di coda.

Cogente felinità
– a contatto.

 

Amico

Riverbero d’immenso
sul morbido muso.

Cauda dimenante
a festa.

Indicibile cuore.

Letizia Lanza

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UN LABIRINTO INCISO IN LINEARE B
a Letizia Lanza

Sigillo interno, da sempre nasce con noi
ci segue ci segna

come nel gioco a riquadri quando
disegnavamo in terra una campana-vita
percorsa a balzi, intrico che si dipana
bambine-ariadne attente a non calpestare i limiti
mentre ostinati i piedi battevano
sulle sbarre del mondo
gli arresti smarriti, i ritorni a sperare

Un labirinto in sinuosa traccia danzante
che di continuo inverte il moto
in ricordo dello sperdimento scuro
della vinta biforme creatura
( grandiosità di un mito necessaria
a dissolvere ogm-chimere)

Ci salva la donna dei gomitoli
Signora del Labirinto
con le sette stanze dello stupore
nella sua cavità delle nascite
offrirle un vaso ebbro di miele
un grazie danzato legati a un filo

quel filo desiderato nel buio dei meandri
dolce s’avvolge si svolge irresistibile
è lo scialle agitato nella danza del ragno
(anche aracne annodava un labirinto-tela)

Il dedalo visibile dall’alto? Un tradimento
a cielo aperto, se verso il cielo
sul mare d’icaro si levano
le nostre incerte ali

Annamaria Ferramosca



XIX
di Michele Pane

Bella, me misi a scrivere ‘u tue nume
E nun sugnu resciutu, anima mia,
cà la pinna era china de dulure,
‘u calamaru de malinconia,
e lu ‘nchiostru era acitu forte forte.
Bella, sì nata ppe’ me dare ‘a morte!

Michele Pane
Le Poesie, Rubbettino Editore, 1987



EROS E CARITA'
di Alberto La Chimia

L’amore cristiano non è l’eros della cultura ellenistica, non ha quel significato che gli diedero i greci. L’amore cristiano porta un altro nome: agàpe ( S. Paolo – Corinzi XIII ), caritas. E cosa è per noi cristiani la carità se non l’amore che proviamo verso Dio, l’amore che proviamo verso gli uomini per amore di Dio.
Esso è superiore a tutte le altre virtù umane. Non c’è sulla al di sopra di agàpe, ne NE la profezia della tradizione ebraica, né l’ineffabile lingua degli angeli che i Corinzi credevano d’intonare nell’estasi; nemmeno la speranza, nemmeno la conoscenza la quale in questo mondo è così misera perché conosciamo Dio confusamente come attraverso uno specchio, dentro “enigmi”.
La carità, l’amore, è persino superiore alla fede dice S. Paolo. Cristo aveva detto:“... se avrete fede quanto un granello di senape potete dire a questo monte: “Spostati da qui a qui” ed esso si sposterà“. Ma S. Paolo va oltre con uno straordinario capovolgimento:“Se avessi tutta la fede, tanta da poter trasportare tutti i monti, ma non avessi l’amore, non sarei nulla; sarei un bronzo che risuona e un cembalo che squilla“. Tutte queste virtù: profezia, dono della lingua, speranza, conoscenza, fede avevano secondo Paolo una deficienza in comune. Erano virtù di questo mondo. Alla fine dei tempi, quando con un tocco leggerissimo della mano Dio aprirà le porte del Suo Regno, tutti questi doni verranno meno. Nel nostro mondo intermediario agàpe è l’unica virtù perfetta, piena e assoluta come sarà perfetta alla fine dei tempi la nostra visione della luce di Dio. Non dobbiamo attendere e rinviare l’attesa. Nell’amore tutto è già qui: Dio è già dentro di noi. Lo incontriamo nell’amore, E se l’amore è il presente assoluto è anche l’assoluto futuro...
Alla fine dei tempi, quando si spalancheranno le porte del regno, la speranza e la fede si compiranno e dunque verranno meno, non ci sarà più virtù umana. Ci sarà soltanto l’amore. Nel vuoto della fine che in quel momento si scioglierà nella visione piena e radiosa del volto di Dio, vedremo a viso a viso. Giovanni dice: “Dio è amore, chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui.“
Attorno alla metà del XII secolo, nell’abbazia di S. Vittore a Parigi, ci fu un gruppo di monaci (Ugo e Riccardo di S. Vittore, Guglielmo di Terry, Frate Ivo) che scrissero dei bellissimi trattati sull’amore divino. Che l’amore terreno e quello divino, eros e caritas, discendevano dalla stessa fonte, era una convinzione diffusa tra questi maestri di spiritualità.
Erano impressi nella loro mente alcuni versi del “Cantico dei Cantici“: forte come la morte è l’amore, dura come l’inferno la passione, le sue torce sono torce di fuoco “Eros e caritas si fusero completamente in questi loro scritti. Riccardo di S.Vittore nel suo“ I quattro gradi dell’amore violento – Profondo come l’abisso è l’amore “descrisse i due amori e vi ritrovò la stessa struttura, le stesse manifestazioni, i medesimi gradi: l’amore che ferisce, che lega, che rende languidi, che fa venire meno. Aveva letto S. Paolo. Ma S. Paolo sottolineava la sobrietà, la misura, la quiete, la mitezza di questa forza che “ tutto sopporta e ci conduce al futuro“. Riccardo di S. Vittore invece sottolineava la violenza, la veemenza dell’amore. Ecco le sue parole:“Sopra i sentimenti di umanità, di amicizia, di parentela e fraternità c’è quello amore ardente e impetuoso, che penetra nel cuor e infiamma i sentimenti e trapassa la stessa anima fino alle midolla.“
Partendo dalla frase di Giovanni:“Dio è amore, chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui.” Ecco che cosa scrive Frate Ivo nel suo“ L’Amore non ha mai fine “: l’Amore è addirittura superiore a Dio! Ecco cosa dice questo sconosciuto frate: “ Così davvero parlando di Dio, d’amore, l’anima non si sazia, perché Dio è amore e amarlo è amare l’amore, Amare l’amore, il cerchio si chiude e l’amore non ha più fine... vedi dunque in quale modo è insuperabile la carità che tutto supera, è così insaziabile che tutto divora, nessuno in futuro potrà saziarsi della dolcezza del divino amore, nessuno esserne ripieno nel presente. E’ di questa impossibilità ti sia di conforto il non avere conforto.“

Alberto La Chimia

 


Ernestina Fracassi

Per la Tua infamante croce, Signore,
per la Tua resurrezione gloriosa,
fummo figli tuoi redenti, in eterno,
ed in eterno salvati dal Tuo amore
e dalla Tua misericordia.
A Te sia lode e gloria fino alla fine dei tempi.




Vivere il mistero del Natale

Abbiamo vissuto l’Avvento come un tempo forte di tensione verso il Natale. Se volessimo vedere in questa tensione un aspetto esclusivamente esistenziale, potremmo cogliere nelle invocazioni di questo tempo liturgico un anelito che è da sempre nell’uomo, un’aspirazione alla felicità, ad uno stato cioè di appagamento totale ed assoluto del proprio essere. Ciò è stato inteso anche come una nostalgia latente nel profondo dell’uomo, la nostalgia di un paradiso perduto. La questione è che molto spesso non si sa precisamente in che cosa consista questa felicità e per quali strade raggiungerla.
Il limitato orizzonte umano si rischiara e si allarga davanti a chi vive nella dimensione di una fede che va oltre i limiti del sentire dell’uomo e dei suoi chiusi sistemi di pensiero. Un cristiano che crede fermamente in un Dio che è Padre e che lo ama immensamente, sa con certezza chi è colui in cui crede, sa che la sua speranza di una felicità promessa da un Dio fedele non sarà delusa, conosce la via sicura per raggiungerla perché lo stesso Padre gliela indica, ha la possibilità di pregustarla in una vita di fede chiara e sicura e di abbandono fiducioso in Dio. Per questo oggi trova profonda eco nel cuore di chi fermamente crede l’annuncio che l’Angelo rivolge a tutti gli uomini : “Vi annuncio una gioia grande: oggi è nato per voi il salvatore, che è il Cristo Signore “ (Lc 2,10). Oggi chi ha fede fa l’esperienza di una gioia profonda, essenziale, mentre il chiarore di una grande verità invade il suo cuore: si tratta di un’esperienza tutta interiore che non è frutto di ragionamenti o di ricerche filosofiche o teologiche, ma che gli giunge attraverso quelle che Pascal chiamava “le vie del cuore”, è quella gioia, dono dello Spirito, che fa pregustare la felicità promessa.
Se m’indugio a parlare della fede è anche perché in questo giorno di Natale noi ci troviamo davanti ad una sproporzione enorme tra la grandezza dell’annuncio e l’esiguità del “segno” dato ai pastori:” un bambino avvolto in fasce e giacente in una mangiatoia” (Lc2,12), e ciò implica un’adesione di fede! I pastori, gente molto semplice, non discutono, non dubitano. Sentono che qualcosa di grande che supera ogni intendimento umano sta succedendo, sanno che Dio è più grande degli uomini, al di là di ogni aspettativa umana è un Dio che stupisce, che riserva delle sorprese. E noi oggi ci allineiamo a coloro che in quella notte santa andarono ad adorare quel Bimbo giacente nella mangiatoia. E’ la nostra fede cristiana: nelle piccole cose si rivelano le grandi, nelle semplicissime esperienze della fragilità e povertà umana è il mistero della presenza di Dio. La fede opera meraviglie, fa che lo spessore della materia diventi trasparenza e il tempo e lo spazio svaniscano. E’ così che contemplando questo Bambino nella mangiatoia ci accorgiamo che la bellezza del suo volto è trasparenza di una divina bellezza interiore: egli porta dentro di sé un mistero, il mistero dell’immenso amore di Dio per noi, di un Dio che si annienta, si fa carne per divinizzare la carne, assume la natura umana per farci partecipi della natura divina!
Ma mentre contempliamo la serena e ridente bellezza di questo Bambino, vediamo delinearsi sullo sfondo la Croce! “Venuto nella carne” (1Gv 4,2; 2Gv 2,7) vuol dire venuto nella realtà terrestre fragile,effimera, distinta dal mondo celeste e spirituale, vuol dire accettare di nascere, crescere e morire, partecipare a tutto ciò che la condizione umana comporta nella sua storia. Questo “farsi carne” vuol dire anche passare attraverso la morte e la morte di croce. Non avrebbe senso parlare dell’Incarnazione senza parlare della Croce: i due eventi sono un unico mistero, il mistero di Cristo, di cui l’Incarnazione è il punto di partenza. Col natale di Cristo nasce l’uomo nuovo, perché l’amore del Padre non si limita a rimettere l’uomo nello stato del primo Adamo, non fa il restauro di una vecchia immagine sbiadita e deturpata, ma lo adotta come figlio, lo fa suo figlio in Cristo. Da ora in poi, poiché il Verbo si è fatto carne, deve portare Cristo dentro di sé, deve viverlo nella sua carne,, perché lo Spirito di Cristo è in lui. Deve essere un figlio di Dio che rispecchia il volto di Cristo e lo manifesta agli altri, non per una insignificante imitazione esteriore, ma perché Cristo vive in lui; questa nuova vita interiore si manifesta nel suo modo di essere, lo modella facendogli assimilare gesti e parole della persona amata, il messaggio di umiltà e di povertà, di mitezza, di perdono e di pace che promana dalla grotta di Betlemme. Chi è l’uomo? Che senso ha vivere? Questi interrogativi hanno attraversato la storia del pensiero umano. “Cristo, rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa conoscere la sua altissima vocazione.” (GS 22). L’uomo è figlio di Dio in Cristo! Questo è l’uomo, questa è la sua identità. Quale promozione umana, quale più grande auto-realizzazione per l’uomo? Qui egli trova la sua integrità, la pienezza della sua vita, il senso del suo vivere. Natale è epifania di Dio in Cristo suo Figlio e in Cristo è epifania dell’uomo. C’è in questa, come in tutte le epifanie, un aspetto fascinoso e tremendo. Ci affascina, ci stupisce, ci riempie di meraviglia sempre nuova, di immensa gratitudine, l’amore immenso di Dio, ma ci fa tremare la risposta che l’uomo deve dare. Nell’ascoltare Dio che lo chiama suo figlio, l’uomo dovrebbe rimanere senza parola, balbettare, come è avvenuto spesso nella storia delle grandi vocazioni. “Riconosci, cristiano, la tua dignità!”. Ogni volta che a Natale risuona nella Chiesa questo solenne richiamo di Leone XIII, non si può rimanere indifferenti: la possente voce di questo grande Papa ci scuote, ci richiama ad una sempre maggiore consapevolezza e responsabilità. Essere figli di Dio significa vivere il Cristo, vivere come membra del suo corpo che è la Chiesa, significa essere in comunione fraterna con gli altri figli dello stesso Padre, significa essere operatori di quella pace annunziata dal coro degli Angeli nella notte di Natale: non una pace fraintesa o malintesa, non una pace falsa, finalizzata al benessere di pochi fatta di compromessi per egoistici motivi d’interesse, non relativa, intesa come non-guerra, ma una pace assoluta, fatta di un armonioso rapporto dell’uomo con Dio, con se stesso, con gli altri, con la natura. Il mistero del Natale è anche mistero di rinnovamento del cosmo con la reintegrazione dell’universo nel disegno del Padre. L’Incarnazione è come la forza incentivante di un comune cammino universale verso un unico punto, Cristo, che ricapitolerà in sé tutte le cose “quelle del cielo e quelle della terra” (Ef 1,10). E in questo cammino l’uomo,figlio di Dio, deve collaborare col Padre con quella vera fede capace di muovere le montagne, con quella fede operante che incarna l’amore del Padre. Se l’uomo risponde alla sua alta vocazione trova quella felicità che cerca mentre per la sua fede il mistero del Natale continua ad attraversare la storia. “Beati voi che avete udito e creduto: ogni anima che crede concepisce e genera il Verbo di Dio! ( S.Ambrogio, Commento su S.Luca)

Suor Beatrice


Un tempo favorevole: spiritualità dell’Avvento

Mi sembra fondamentale per il nostro argomento evidenziare il significato essenziale presente in tutti i tempi liturgici, cioè il mistero di Cristo.
Il mistero di Cristo è il piano salvifico che Dio attua nel tempo, dalla creazione del mondo alla morte-risurrezione di Cristo, e che avrà la sua piena attuazione nella parusia finale, quando “Dio sarà tutto in tutti” (1 Cor 15,28b”. Ogni momento di questo piano include il momento successivo, è come un germe che contiene potenzialmente il tutto, ed il centro di questo tutto è l’evento pasquale. E’ un disegno divino che si dispiega lungo tutto l’arco della storia umana, quindi ogni anno il mistero di Cristo torna ad essere celebrato, non come una ripetizione vuota e sterile, ma come una crescita, un ulteriore passo verso la manifestazione gloriosa del Signore. E’ la storia della salvezza che continua e che per opera dello Spirito Santo si attua in noi. I cosiddetti tempi forti sottolineando marcatamente, ognuno sotto il suo specifico aspetto, ilsignificato pasquale presente in tutto l’anno liturgico, ci fanno vivere l’amore di Dio per noi in Cristo, comunicandocelo nella liturgia propria del tempo.
Anche quest’anno l’Avvento ritorna per porgerci una nuova occasione di salvezza e di ulteriore crescita, un tempo favorevole da non perdere, da non lasciare scorrere invano. Tenere presente il suo significato pasquale, immergerci in esso per parteciparvi con piena disponibilità di cuore, ci aiuterà a rettificare l’aspetto parziale delle cosiddette “devozioni” in cui prevale per lo più il sentimentalismo ed il moralismo, facendoci dimenticare o trascurare l’essenziale. Le quattro settimane dell’Avvento sono una preparazione alla triplice venuta del Salvatore:venuta nella storia in Gesù di Nazareth, nel quale si rivela il volto del Padre, celebrata nella liturgia; venuta nel suo Santo Spirito nei vari momenti della nostra esistenza; venuta gloriosa di Cristo alla fine dei tempi. L’Avvento è tutto caratterizzato da questa tensione, da questo aspettare che il Signore ritorni manifestandosi pienamente nella gloria. “Ora lo vediamo come in uno specchio, ma verrà il giorno in cui lo vedremo faccia a faccia” (1 Cor 13,12)
La spiritualità dell’avvento è pertanto la spiritualità dell’attesa, caratterizzata da tutti gli elementi che rendono viva e palpitante un’attesa.
Si attende con gioia, quasi vivendo in anticipo tutta l’emozione dell’incontro. L’attesa è sempre sostenuta dalla speranza: senza speranza non si può attendere; attesa è quasi sinonimo di speranza. Si attende preparando con tanto amore un ambiente degno di accogliere chi ritorna, un ambiente pulito, ordinato, adorno delle cose a lui gradite, pieno di luce, perché egli possa sentirsi subito a casa sua. In anticipo spalanchiamo le porte, perché egli veda che tutto è pronto e la piena disponibilità ad accoglierlo. Colui che attendiamo è il Signore della nostra vita, l’ambiente da preparare è il nostro cuore che spalanchiamo perché Lui entri e vi dimori per sempre, la luce che illumina il cuore è lo Spirito “ per mezzo del quale gridiamo: -Abbà,Padre!- (Rm 8,15b), e supplichiamo:”Vieni! Maranà tha!”(Ap 22,17). La preparazione del cuore è un movimento di conversione che nei tempi forti diventa più marcato, quasi una loro caratteristica, perché in questi tempi attraverso la Parola di Dio e la Liturgia c’è da parte della Chiesa un forte richiamo ad essa. Ma vorrei puntualizzare che tutta la vita, fino all’ultimo momento, giorno dopo giorno, è tempo di conversione: i tempi forti non fanno che condensare ed evidenziare il senso di tutta la nostra esistenza. La vita di un cristiano è un dimorare nella conversione:egli sa che la vita gli è stata donata per accogliere l’amore illimitato del Padre e ad esso si abbandona, pur riconoscendo la sua miseria, pur convivendo con essa; sa che egli nulla può senza questo amore davanti al quale cade ogni autogiustficazione ed ogni illusione di efficientismo, che deve semplicemente rimanere nella verità,ammettendo umilmente il suo peccato per aprirsi alla grazia di Dio, pieno di speranza ed abbandono: come un bambino che consapevole e rammaricato di aver fatto un danno, si rifugia fra le braccia del padre e gli dice tutto, sicuro che il suo papà porrà riparo a tutto. In questo Avvento la triplice venuta di Gesù ci mette in causa: è un tempo favorevole per aprirci alla grazia di Dio e diventare quel meraviglioso uomo-pasquale che incessantemente muore in Gesù e risuscita con lui. Ci guiderà in questo cammino la stella della fede, ci aiuterà la preghiera, nel silenzio esteriore ed interiore accoglieremo la Parola, che vuole venire e vivere nel nostro cuore.


La Liturgia delle Ore (1)

Introduzione. Vorrei condividere con voi alcune riflessioni su quella parte della preghiera liturgica chiamata Liturgia delle Ore. Per quanto riguarda la Liturgia è facile che l’interesse s’incentri sulla celebrazione eucaristica, e questo si capisce: la morte e risurrezione di Cristo, di cui propriamente sacramento è l’Eucaristia,costituiscono l’avvenimento centrale del cristianesimo; l’Eucaristia è culmine e fonte della preghiera liturgica e della vita cristiana. Anche con la liturgia sacramentaria abbiamo più facilmente occasione d’incontrarci: battesimi, prime comunioni, cresime, matrimoni,sacramento del perdono, sono frequenti occasioni d’incontro nell’ambito in cui viviamo ed occasioni di riflessione e di catechesi. Ma è bene approfondire sempre più il significato e l’importanza della Liturgia delle Ore, che è precisamente quella preghiera che prolunga durante tutta la giornata l’azione salvifica del sacrificio di Cristo celebrato nell’Eucaristia. Infatti, se vogliamo ben comprendere il significato della Liturgia delle Ore, dobbiamo tenere ben fermo che essa è la preghiera della Chiesa che è unita a Cristo con la stessa intimità che unisce la sposa allo sposo, il corpo al suo capo. La Chiesa prega, ma in lei prega lo Spirito di Cristo, che, proprio per il sacrificio che Cristo ha offerto sulla Croce, è stato infuso nei nostri cuori; quella vita divina che per noi si è sprigionata dal Sacrificio di Cristo viene infusa in noi mediante i Sacramenti che c’inseriscono sempre più in Cristo. Nella Liturgia delle Ore Cristo continua a rivolgere al Padre, insieme con la Chiesa, la sua offerta già fatta sulla Croce e la sua preghiera. La Liturgia delle Ore è irradiazione della celebrazione eucaristica, sgorga da essa, in essa Cristo continua a pregare con noi durante la giornata. Detto con parole semplici: se noi avessimo per un istante lo straordinario dono di vedere con i nostri occhi di carne, non mediante la fede, la realtà che si nasconde dietro il velo del segno liturgico, noi, durante la recita del Vespro o di altra Ora liturgica, vedremmo il nostro Signore Gesù Cristo presiedere in persona la nostra assemblea! E’ il sacramento del Mistero di Cristo!
Fermiamoci un momento a considerare più da vicino questo mistero che ogni giorno ci viene offerto di contemplare e di vivere.

La Liturgia delle Ore (2)

Simbolismo della luce. Per il nostro tema merita particolare attenzione il simbolismo della luce, che si accompagna in primo luogo al corso del sole. Il grandioso fenomeno naturale rappresentato dal cammino del sole
ha sempre impressionato l’uomo. “Dio Sole invincibile – Sol invictus – “: così lo chiamavano i Latini: con questo nome veniva onorato soprattutto il Dio Mitra. Nell’antico Oriente il sole era simbolo di giustizia. Così ce ne parla il Salmo 19, dove la grandiosità del creato celebra la gloria di Dio: “Là pose una tenda per il sole / che esce come sposo dalla stanza nuziale / Esulta come prode che percorre la via. / Egli sorge da un estremo del cielo / e la sua corsa raggiunge l’altro estremo: / nulla si sottrae al suo calore” (6.7). Con tremenda maestà il sole dispensa luce e calore, risveglia la vita e la uccide, dona la luce e rende cieco l’occhio troppo ardito. Nessuna meraviglia quindi che dapprima gli orientali e, dopo,anche i popoli del Mediterraneo, vedessero nel sole la più alta divinità. Fra questi popoli tale modo di pensare influirà anche sul modo di pregare. La splendida luce del mattino risveglia vita, gioia ed ardore di lavoro. Perciò per gli antichi orientali, il punto da cui il sole nasce di venne simbolo del divino, infatti quando si pregava si stava rivolti verso oriente. Anche i primi cristiani pregavano rivolti verso oriente, in piedi, le braccia alzate, gli occhi al cielo: è questa la figura dell’orante che così spesso incontriamo nelle catacombe. Oltre che il mattino, anche la sera divenne un momento dedicato alla preghiera, e le fasi intermedie del corso solare assunsero nel culto una loro importanza.
La Chiesa ed il sole. La Chiesa ha assunto queste concezioni pagane purificandole. Per la Chiesa non è il globo solare il vero dio, ma esso è il simbolo della luce e della vita che Cristo è venuto a portare nel mondo, come lui stesso ha detto: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12). In conformità al corso quotidiano del sole, simbolo del sole spirituale che è Cristo , è l’Ufficio divino quotidiano ( Opus Dei) che viene chiamato Liturgia delle Ore. Con questo la Chiesa conferisce nuova bellezza al corso naturale, perché lo spiritualizza e la natura assurge a simbolo del divino nella preghiera e nella spiritualità cristiana. E’ bello contemplare la natura per contemplare la bellezza di Dio; l’uomo è, nel progetto di Dio,signore della natura, non per distruggerla, ma per coinvolgerla e farsene voce nella lode a Dio: questo avviene precisamente anche nella liturgia.

Laus perennis. C’è un altro punto da sottolineare: quello della preghiera incessante, di cui abbiamo già parlato in articoli precedenti. Ricordiamo la parola del Signore in Lc 18,1: “Pregate sempre senza stancarvi”, esortazione che troviamo spesso nel pensiero paolino: in 1Ts 5,17 l’Apostolo ci esorta: “Pregate incessantemente”, ed insiste su questo tema anche nelle altre sue lettere. E’ un’esortazione che ha esercitato un grande influsso nella spiritualità cristiana. Come adempie la Chiesa questo comando di pregare sempre, senza sosta? Anche se è vero che in Cristo suo sposo, con Lui e per Lui, la Chiesa prega incessantemente, è pur vero che nel culto esterno l’esortazione a pregare incessantemente non può realizzarsi. Tuttavia la Chiesa la realizza veramente. Come? Secondo un’antica concezione, quando un fatto ritorna e si ripete, secondo un ritmo regolare, sempre uguale, si realizza una specie di eternità terrena. Nelle catacombe, ad esempio, sono raffigurate le stagioni: esse non sono un elemento decorativo, ma piuttosto, con il loro corso che sistematicamente si ripete, con la loro perenne rinascita, sono simbolo d’eternità. Quindi la Chiesa, pregando ogni giorno, sempre alle stesse determinate ore, secondo un ritmo regolare sempre uguale a se stesso, realizza la preghiera incessante raccomandata dal Vangelo e dall’Apostolo. Queste Ore, poi, seguono il cammino del sole, sempre secondo l’idea che il sole è simbolo di Cristo. Questa è la Liturgia delle Ore, la laus perennis, la lode incessante che la Chiesa rivolge a Dio.

La Liturgia delle Ore (3)

Significato storico. Oltre ai suddetti significati, le Ore liturgiche hanno un significato storico perché esse corrispondono ad avvenimenti della vita terrena di Gesù. L’ora delle Lodi si celebra al sorgere del sole, che è già un’immagine parlante del Signore che risorge da morte e che è l’ora in cui realmente avvenne la Risurrezione; l’ora Terza è l’ora in cui lo Spirito Santo discende sugli Apostoli riuniti nel Cenacolo; l’ora Sesta corrisponde all’ora in cui Gesù fu affisso alla Croce, ma è anche, secondo un,antica tradizione, l’ora della sua ascensione, e quindi il punto meridiano della sua vita; l’ora Nona ricorda l’ora in cui il Signore morì sulla croce.
Corso e struttura. Questa liturgia quotidiana comincia con i Vespri del giorno precedente, per un motivo molto semplice: il giorno per l’uomo dell’antichità non cominciava a mezzanotte, momento che si può stabilire in base alle indicazioni di un mezzo tecnico come l’orologio. Invece il giorno finiva secondo le indicazioni naturali, cioè col tramonto del sole, e con ciò stesso cominciava l’altro giorno. L’Ufficio divino che si celebra verso il tramonto (vesperus,esperia:sera) appartiene quindi al giorno che sta per finire e tuttavia ci introduce già al giorno successivo. Per questo motivo il Vespro appartiene almeno in parte e, nelle ricorrenze più importanti nella sua totalità, alla celebrazione liturgica assegnata al giorno seguente: ecco perché il sabato ci sono i primi Vespri della domenica, le cui antifone e letture ci introducono già nella liturgia domenicale. Così,ad esempio, i primi Vespri del Natale introducono il nostro spirito nella festa del giorno seguente. .i nostro spirito giorno seguente seguente . Quando il sole si avvia al tramonto, la sua luce è più delicata e si diffonde, con la dolcezza propria di quest’ora, sulla terra stanca dopo una giornata di lavoro. Il tempo del tramonto è straordinariamente adatto a risvegliare nel cuore dell’uomo un desiderio di pace, di armonia, di unità. Gli antichi immaginavano che nelle regioni dell’occidente, dove il sole s’immerge nel mare,finisse il mondo ed incominciassero il regno dei morti e le regioni del paradiso. Anche il cristiano pensa al termine delle fatiche del giorno e ad una luce che non tramonta mai. S.Ignazio di Antiochia,martire, nella sua Lettera ai Romani, parlando del tramonto del sole, dice :” Cosa bella è tramontare al mondo per salire a Dio” Con questo spirito la Chiesa celebra i Vespri.

La Liturgia delle Ore (4)

Struttura. Ogni Ora liturgica incomincia con l’inno. C’è in ogni inno una ricchezza di significato e di sentimenti che inonda l’animo all’inizio di ogni Ora: subito ci si sente trasportati nel clima della celebrazione. Basti ricordare l’inno maestoso del Natale “Jesu Redemptor omnium! – O Cristo, redentore universale !” A quali altezze ci porta il gregoriano in questi inni! E quanti spunti di meditazione ci offre l’inno del Vespro di Pasqua, che con tanta dolcezza ed interiorità sa unire il mistero pasquale all’eucaristia che ne è propriamente il sacramento ed è il primo cibo dei battezzati! “Preparati per il pasto dell’Agnello, vestiti di bianche vesti, col Mar Rosso ormai alle spalle, vogliamo cantare a Cristo, nostro Signore!”:
un’onda di vittoria e di liberazione si sprigiona da quest’inno, si leva come un mormorio lieve e sommesso dalla tomba dei martiri vittoriosi, per diventare man mano sempre più forte, sempre più possente, inno della moltitudine dei credenti di tutti i luoghi, di tutti i tempi, di un esercito immane che ha come vessillo una Croce!
Nel tempo pasquale seguono altri inni stupendi, come quello dell’Ascensione tutto pervaso di gioia, d’amore, di speranza e nostalgia, e quello di Pentecoste che ci fa sentire il soffio dello Spirito, potente come ali d’aquila e lieve come volo di colomba.
In tutte le ore liturgiche, all’inno seguono i salmi preceduti da singole antifone che collocano ogni salmo in una luce specifica. I salmi sono la parte essenziale della Liturgia delle Ore. Essi immergono l’anima nel mondo della contemplazione; chi potrebbe esprimere con parole tutta la profondità della preghiera contemplativa dei salmi? Non esiste alcuna situazione spirituale che non trovi nei salmi la sua espressione: dal più profondo dolore fino alla gioia della personale esperienza del divino, dalla supplica alla lode. Mentre preghiamo i salmi, ciò che essi contengono, il rapporto con Dio che essi esprimono, diventano nostro possesso personale.
Cassiano, il famoso maestro di spiritualità monastica, dice che dovremmo recitare i salmi, come se fossimo noi stessi a comporli mentre preghiamo.
L’esempio più alto ci viene da Gesù che, sulla croce, in uno stato di profondo abbandono spirituale, elevò il suo grido al Padre servendosi delle parole del salmista.
I salmi dovrebbero essere essere recitati in modo pacato ma fluente e, se cantati, la melodia dovrebbe essere semplice e gradevole, tale da creare un clima di tranquillità. Gli otto toni del gregoriano danno la possibilità di scegliere un tono adatto a conferire al salmo una nuova e specifica coloritura. Il clima liturgico deve essere tale da far penetrare nel cuore il mistero che la liturgia celebra.
Dai salmi si passa ad una breve lettura biblica che induce alla meditazione della Parola di Dio: nella liturgia la Sacra Scrittura acquista vita nuova. Incastonata nel contesto liturgico del giorno, la Parola di Dio riceve la sua attualizzazione illuminando il significato del nostro vivere quotidiano. Punto culminante del Vespro è il cantico del Magnificat: qui al tramonto di ogni giorno, la preghiera trova la sua più eloquente espressione, qui c’è il mistico abbandono nelle profondità divine, qui la dedizione di un cuore umile al volere di un Dio misericordioso, qui un’anima piena di gioia ringrazia il Signore per tutto quello che egli ha fatto in conformità alle sue promesse. “ E il mio spirito esulta in Dio mio salvatore!”. Seguono le implorazioni, quindi ci si rivolge a Dio con la preghiera che il Signore ci ha insegnato : -Padre nostro,che sei nei cieli!-
dove ritroviamo quell’abbandono filiale e quella gioia che abbiamo sentito vibrare nel Magnificat. Con l’orazione finale si conclude ogni Ora liturgica.

La Liturgia delle Ore (5)

Preghiera nel silenzio della notte. Quando il sole scompare e sopraggiunge la notte, le fatiche del lavoro quotidiano sono ormai terminate. Non si né disturbati da un mondo esteriore, c’è silenzio: le stelle brillano in cielo, ma il loro cammino è silenzioso, la loro luce mite, dolce non abbagliante: c’è quasi un riflesso di eternità che rifulge, il tempo sembra che si sia fermato. I Romani chiamavano la notte profonda “intempesta”, cioè “fuori del tempo”. Già i pagani preferivano il tempo notturno per i riti religiosi. I riti misterici, mediante i quali si sperava di raggiungere l’unione con la divinità, venivano celebrati di notte, e durante la celebrazione soltanto la luce poco sicura di una fiaccola illuminava ogni tanto la scena, ma al temine sfolgorava la luce del mistero e annunciava la presenza della divinità.
Anche la Chiesa celebra i suoi più grandi misteri, l’Incarnazione e la Risurrezione, nel silenzio misterioso della notte, con la veglia di Nata
le e la Veglia di Pasqua; anzi ogni solennità di notevole importanza
e la Veglia di Pasqua; anzi, la Chiesa prepara ogni solennità di notevole importanza con una veglia notturna , detta con termine latino “vigilia”. Già i Greci conoscevano una celebrazione che comprendeva la notte intera e la chiamavano “pannuchis”, e la Chiesa del tempo antico nella notte precedenti le feste principali vegliava l’intera notte alternando preghiere, canti e letture sacre. Nella notte di Pasqua gli antichi cristiani attendevano il ritorno di Cristo. Uno dei primi autori cristiani, Lattanzio, così ce ne parla: “Il significato di questa notte è duplice: in essa egli, il Signore dopo la sua passione è ritornato alla vita, più tardi egli in essa ritornerà per avere il dominio su tutta la terra”
Questa celebrazione notturna è rappresentata oggi nella preghiera della Chiesa da quell’Ora liturgica che si chiama Ufficio delle Letture. Era chiamata “Mattutino” perché si celebrava nelle prime ore del mattino; adesso si celebra in un’ora da scegliere fra i Vespri ele Lodi del mattino seguente. Di particolare importanza in quest’ora, accanto alla Sacra Scrittura, la lettura dei Padri della Chiesa, che per la dottrina e per l’alta spiritualità che la distingue, ci offre una ricchezza da non perdere.
Si tratta di una grande miniera di allegoria, di teologia, di esegesi, di saggezza pratica, di ardore mistico: pagine di cultura raffinata e di cristianesimo vissuto, che anche nella forma raggiungono spesso una perfezione classica.

La Liturgia delle Ore (conclusione)

Durante il giorno. .L’oscurità della notte è terminata, la luce si annuncia col primo chiarore del mattino; le stelle impallidiscono e soltanto la stella del mattino rifulge ancora col suo mite splendore. A questo punto inizia la liturgia dell’alba chiamata Lodi. Di fatto l’anima è pervasa da un sentimento di gratitudine e di lode; è come se voglia risvegliare il creato per invitarlo a questa lode, per dirgli che il sole della giustizia è vicino. Mentre l’aurora tinge il cielo di rosso, la Chiesa prega: “ Possa in questo momento, come vera aurora, sorgere il Figlio unito al Padre”. Ed ecco sorge finalmente, come eroe vittorioso, il sole: come Cristo, dopo la lunga notte di morte, si alzò dal sepolcro, sfolgorante di luce. In questo momento la Chiesa intona il cantico di Zaccaria, il canto alla redenzione operata da Cristo:

Benedetto il Signore Dio d’Israele

Un sole che sorge dall’alto
viene a visitarci
per illuminare coloro
che siedono nell’oscurità
e nell’ombra di morte,
per guidare i nostri passi
sulla via della pace

E’ un cantico ricco di forza virile adatto all’inizio di un giorno operoso, mentre il Magnificat dei Vespri è più teneramente femminile, ricco di caldo sentimento.
Poi il sole si fa sempre più ardente, ma è proprio questo calore che fa maturare i frutti. Le ore Terza,Sesta e Nona hanno un carattere implorativo: si chiede nuovo impulso per affrontare le fatiche del giorno. I salmi usati in queste ore fanno parte dei cantici delle ascensioni: erano salmi che i pellegrini ebrei che si recavano a Gerusalemme, in occasione delle grandi feste, cantavano salendo i gradini del tempio. La Chiesa, pellegrina anch’essa, li canta ogni giorno: comprendono i salmi da 120 a 134, ed è bello rileggerli attentamente ogni tanto e meditarli, perché c’è in essi tutta la spiritualità del cammino. E’ un cammino irto di ostacoli, ma anche fiorito di speranze, in cui scoraggiamenti e slanci di entusiasmo, soste e riprese si alternano, nel desiderio di arrivare alla meta, a Gerusalemme. E la nostra esistenza, la nostra giornata! Per entrare un attimo nel vivo della liturgia, fermiamoci ad esempio su due di questi salmi che la Chiesa canta ogni giorno a Nona. Nel salmo 127 vediamo il pellegrino giungere a Gerusalemme: egli vede il tempio in ricostruzione: un cantiere di lavoro. Gli uomini spendono energie e denaro perché il tempio è il centro spirituale d’Israele. Tuttavia qui c’è un triplice “invano”. Il pellegrino, un po’ ironico, pensa: Si, tanto lavoro, ma è inutile se non è il Signore che costruisce. Il pellegrino non disprezza, no, l’impegno, la fatica degli uomini; soltanto dice che ciò che conta è che chi dà quello che occorre è il Signore. Noi da soli non possiamo fare nulla! E’ quell’abbandonarsi fiducioso nelle mani di Dio, perché l’iniziativa è e rimane sua! Ricordiamo che è stato Salomone a ricostruire il tempio. Nel capitolo 3 del primo libro dei Re, Salomone, appena intronizzato, si ritira presso il santuario che è ancora una tenda, e passa la notte lì. Nel sonno ha un sogno e in esso chiede a Dio la sapienza del cuore. Nel secondo libro di Samuele leggiamo che quando Salomone nasce gli viene dato il nome di Iedidia, che vuol dire: amico di Dio. Salomone, l’amico di Dio, attraverso il sogno ha ottenuto la sapienza del cuore e sarà lui il sapiente costruttore del tempio, perché è colui che vive in obbedienza all’iniziativa di Dio, diviene strumento nelle mani di Dio per un’impresa colossale come fu la costruzione del tempio. Salomone non è un uomo disimpegnato, astratto; ma è sognatore, in quanto a occhi chiusi, potremmo dire, come amico del Signore è pronto ad aderire all’iniziativa del Dio vivente. Il Signore lo trova docile, trasparente, discreto, e da questo gli deriva una grande capacità operativa. Beato l’uomo che si affida alla gratuità della provvidenza divina! E’ la fiducia in un Dio che tiene nelle mani il futuro!
Il salmo continua:”Dono del Signore sono i figli”. I “figli” qui significano le generazioni che verranno, la storia futura: in ebraico essi sono :Nahalàt Jawe (JHWH) = eredità del Signore, ed è questo il termine che significa la terra promessa. Ciò vuol dire che i figli servono ad assicurare la terra promessa . Essi sono “frecce appuntite”, metafora per dire che con i figli forti un padre,come un “eroe”, può affrontare la vita.
Sembra un paradosso, ma è cosi: se dormiremo e sogneremo, nel senso indicato dal salmo, daremo frutto. Dobbiamo imparare a “sognare”,cioè a dare dentro di noi tanto spazio all’iniziativa divina, alla gratuità della sua provvidenza.
Il salmo 128 è una prosecuzione ideale di quello precedente.Qui si parla di un uomo attivo che cammina per le “sue” vie; il quotidiano cammino è affrontato con pazienza, ma sono vie “sue”,sono le vie di Dio. Per l’uomo che teme il Signore il quotidiano è il luogo dell’incontro con Dio ed è l luogo in cui tutto è dono di Dio.

Dopo queste riflessioni sulla Liturgia delle Ore, più forte diventa in noi la convinzione che, se ci concediamo una pausa per dedicarla a questa preghiera, noi non togliamo niente alle nostre attività, anzi è in quei momenti che acquistiamo forza operativa; sono momenti di
“sogno”, sono squarci di luce che illuminano il nostro quotidiano e permettono al Sole di giustizia di entrare nella nostra esistenza per farci continuare il nostro cammino con forza e gioia.

Sr. Beatrice OSB


Da Montefiolo, Casa della Risurrezione

Riportiamoci a quell’unità di vita di cui abbiamo parlato in apertura a questa rubrica di “Spiritualità” in seguito alla “Giornata di Gesù” di Don Matteo. Da quanto abbiamo detto finora si può dedurre che essa coincide con la preghiera incessante. Quello che celebriamo sacramentalmente dovremmo viverlo esistenzialmente. Liturgia e vita dovrebbero compenetrarsi, altrimenti forse non celebriamo niente: l’una dà senso all’altra. Battesimo, sacramento del perdono, eucaristia, se celebrati con vera fede, diventano la forma trasformante della nostra vita; forse spesso celebriamo il mistero di Cristo, ma poi nella vita non ne accettiamo tutte le implicazioni. Gli altri hanno spesso da rimproverarci questa mancanza di coerenza, di autenticità, di trasparenza, e se il mondo d’oggi è scristianizzato, secolarizzato, se ci sono tante situazioni negative nella società di oggi, questo è dovuto, secondo gli esperti in materia, anche e forse in gran parte, a questa frattura che c’è nella vita cristiana. Quando diciamo che la fede ci fa vedere la verità delle cose dovremmo aggiungere che non basta “ vedere” la verità, ma bisogna che essa penetri nella nostra vita e trasparisca dal nostro agire, dal nostro stile di vita. Questa è la fede incarnata che si esige da noi cristiani: se diciamo di credere in un Dio che è venuto incontro agli uomini per condividere in tutto la loro condizione umana, l’incarnazione della fede significa andare verso le tante povertà dell’uomo di oggi, soffrire della sua sofferenza facendosene carico. Il mondo vuole che noi siamo “veri” cristiani
Nelle prime comunità cristiane la carità verso i fratelli bisognosi era inserita nella celebrazione liturgica, e diventava così un atto liturgico, un segno dell’agàpe di Dio per gli uomini. Una pagina del vangelo di Matteo suscita in me sempre lo stesso pensiero: è quella del giudizio finale (Mt 25,31-46). Quando nella celebrazione eucaristica acclamiamo: “Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice, annunciamo la tua morte, Si-gnore, e proclamiamo la tua risurrezione”, mi sembra che faccia eco la voce del Signore che dice:” Ogni volta che dai da mangiare a chi ha fame, e dai da bere a chi ha sete, che vesti l’ignudo, accogli lo straniero e visiti il malato e vai a trovare il carcerato, lo fai a me! Io son o lì ad aspettarti! Sia incessante per te questa liturgia, continua a celebrarla con la tua vita! “Davanti a questa pagina di Matteo forse qualcuno ha pensato che Gesù abbia voluto istituire altri sacramenti! Certo, non lo ha fatto, ma ci ha certamente indicato tanti segni sicuri della sua presenza!
Nel monastero che stiamo visitando, altri segni sicuri della presenza di Cristo sono gli ospiti e accogliere loro fa parte certo della preghiera incessante. Per farsene un’idea bisogna leggere il cap. LIII della Regola: “Tutti gli ospiti siano accolti come Cristo… i monaci gli vadano incontro con ogni dimostrazione di carità... si adori in loro Cristo stesso che viene così ricevuto... si prenda cura specialmente nell’accogliere i poveri ed i pellegrini, giacché i loro ancor più si accoglie Cristo”. Bisogna ricordare, per entrare nello spirito che anima questo capitolo, l’atteggiamento della peccatrice nei riguardi di Cristo nella casa del Fariseo ( Lc 7,36)
Anche nel motto programmatico benedettino “Ora et labora” è espressa la continuità della preghiera: sono stati cantati i salmi in chiesa, ma lo stesso spirito e lo stesso intento devono animare il lavoro. Non “ora aut labora, ma “ora et labora”; in questo armonico ritmo di vita è indicata a tutti la via per raggiungere un equilibrio umano, nel più alto significato che si può dare a questa parola, perché in esso tutto l’uomo nella sua unità e totalità è im-pegnato nel servizio a Dio e nel dargli gloria.



Visita a un monastero Benedettino
Montefiolo – Casa della Risurrezione

Silenzio e Parola

Uno dei tanti bei chiostri benedettini ci accoglie: armonia di linee, gioco di luci e di ombre ,verdi aiuole si offrono al nostro sguardo sguardo attraverso le arcate; e ci troviamo d’un tratto immersi nel silenzio. Il rumore, il frastuono ce li siamo lasciati alle spalle. Qui regna il silenzio, perché qui ci sono coloro che hanno sentito il bisogno di far tacere, dentro di loro e intorno a loro, qualsiasi voce o rumore che possa disturbare o interrompere questo silenzio; dentro di loro: rumore spesso confuso di sentimenti e pensieri, di inutili e spesso evasive aspirazioni;
intorno a loro: il frastuono di varia provenienza della vita di oggi. S. Benedetto dedica un bel capitolo al silenzio nella sua Regola: esso è un habitus, uno spirito (taciturnitatis gravitas), dettato dal desiderio di far tacere se stesso (quindi dall’umiltà), per ascoltare (obbedienza) una sola, unica parola: Cristo, parola eterna del Padre. Anche soltanto per percepire la voce che chiama e che ci indica la via da seguire, c’è bisogno di spazi e tempi di silenzio; come fanno a capire questo quei giovani che sono sempre dispersi fra mille voci? IL silenzio è questa ten-sione di ascolto: un silenzio non vuoto, ma pieno di questa Parola; siamo nel chiostro (claustrum, da claudere), luogo chiuso ad ogni altra voce, ma tutto aperto alla voce “dall’alto”. Ecco perché quando, percorrendo il chiostro, scorgiamo la bianca, maestosa statua di S. Benedetto, ci volgiamo a lui, come al padre che ci aiuta in questa vita di ascolto. Ci mostra un libro aperto, su cui si vde a grandi caratteri: “AUSCULTA, FILI” (Prol. 1). E a questo punto potrei dire che è tutta qui la vocazione benedettina. Ausculta: è il Padre che c’invita nad ascoltare la voce divina; non ci chiama ad altro: il monaco è colui che è stato chiamato a stare in perenne ascolto della parola di Dio. Ricordiamo:Dio così convocava il suo popolo :”Ascolta, Israele!”: il monaco è colui che rimane convocato per sempre alla presenza di Dio, per ascoltarlo. S. Benedetto continua: ”Inclina aurem cordis tui” : Tendi l’orecchio del tuo cuore! (Prol. 1). “Bisogna qui ricordare che S.Benedetto vuole dare al termine “Ausculta” tutto il significato biblico che questa parola ha : udire,accogliere nella fede questa parola ed agire in conseguenza, obbedire ad essa.Audire è obaudire: un ascolto quindi che coinvolge tutta la vita,che ci fa vivere in un determinato modo invece che in un altro. E S.Benedetto mostra appunto nella sua Regola una via, un modo concreto di ascolto: chi dallo Spirito si è sentito attratto ad entrare in un monastero, se veramente vi è stato chiamato da Dio, deve poi acquistare la convinzione ferma che è questa la sua via. Ci sono tanta vie, ma ognuno di noi è veramente a posto quando è sulla sua via. Ecco perché a chi chiede di entrare a far parte di una comunità monastica si legge dopo un periodo di due mesi, per intero, questa Regola e gli si dice: “Ecco la legge sotto la quale desideri prestare servizio: se puoi osservarla, entra, se invece non puoi sei libero di andartene” (RB LVIII). Se egli persiste, dopo sei mesi gli si rilegga la Regola, perché sappia a che cosa si prepara. Se persevera ulteriormente, dopo quattro mesi gli si rilegga ulteriormente la stessa Regola. Intanto deve dimostrare anche che egli cerca veramen te Dio, che è pronto all’Ufficio divino, ad obaudire. Se poi, dopo aver seriamente riflettuto, prometterà di osservare tutto quanto, allora sia pure accolto nella comunità”. E così intanto, dopo aver sostato nel chiostro, entriamo anche noi in questa Casa.

Continuando la visita ad un monastero Benedettino

Vita in Cristo

Dopo la sosta nel chiostro entriamo in casa. Qui andiamo prima di tutto nell’oratorio. Esso deve essere, dice S.Benedetto, “quello che dice il suo nome, né vi si facciano o si ripongano altre cose”(RB VII,1). Qui il nostro sguardo si posa subito sull’altare: ci colpisce la posizione centrale che in questa chiesa esso ha e che sottolinea visibilmente la sua centralità nellavita del monaco e della comunità monastica. Al novizio ,prima che egli sia ammesso nella comunità, viene ripetutamente letta la Regola, egli deve percorrere quindi delle tappe che segnano un cammino. Questo cammino è come una processione introitale con la quale il novizio si avvia verso l’altare, su cui il giorno della professione monastica deporrà l’atto della professione. Con questo atto egli depone sull’altare tutta la sua vita. Ma l’altare è Cristo, la pietra angolare dell’edificio spirituale che è la Chiesa. Già inserito vitalmente in Cristo nel Battesimo, il monaco vuole con morte e la sua professione monastica vivere radicalmente fino alle sue ultime conseguenze il suo Battesimo. Così egli, facendo ogni giorno morire in sé l’uomo vecchio e risorgendo continuamente a vita nuova, partecipa quotidianamente alla morte e risurrezione di Cristo, al suo mistero pasquale. Questa partecipazione al mistero pasquale di Cristo, che ha il suo momento forte nella celebrazione eucaristica, si estende a tutta la vita del monaco, sicché tutto è integrato in essa. Gli oggetti del monastero sono considerati come fossero vasi dell’altare (RB 31,10), ogni servizio,dal più alto al più umile, riceve da questo tutta la sua dignità ed il suo significato. Nelle prescrizioni liturgiche della Regola la Pasqua è il centro verso cui convergono gli altri tempi liturgici. Ma non solo la liturgia è disposta in funzione della Pasqua, anche tutto ciò che si svolge nel monastero è regolato dalla Pasqua (lettura,lavoro,pasti, le diverse osservanze (RB XlL) .Dunque non si tratta qui d’una data e d’una semplice festa, ma del mistero che essa celebra: la vita del monaco è essenzialmente partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo. (Prol.50). Il monaco è un battezzato che vuole vivere fino in fondo la dinamica del suo Battesimo e così tutta la sua vita diventa in Cristo una preghiera incessante

Continuando la visita ad un monastero Benedettino

La preghiera incessante

Ma che cosa è questa preghiera incessante che riassume praticamente tutta la spiritualità cristiana, questo “pregare sempre, senza stancarsi” che vediamo in Luca 18, 1. ? Stiamo parlando ancora della visita ad un monastero benedettino per spiegare in termini concreti che cosa è la vocazione benedettina. Su questo argomento però vorrei soffermarmi un po’ di più perché esso riguarda non solo i monaci, ma tutti i cristiani che vogliono vivere coerentemente il loro battesimo. Tante definizioni sono state date della preghiera, ma l’essenza è sempre questa: un rapporto d’amore col Padre. Una volta uniti vitalmente al Padre in Cristo, per mezzo dello Spirito, una volta divenuti suoi figli, non possiamo essere qualche volta figli e qualche volta no: tutta la nostra esistenza dovrebbe essere un rapporto d’amore col Padre, tutto dovrebbe essere espressione dello Spirito che in me grida: “Abbà, Padre!” (Gal 4, 6): Tutto: il mio parlare con Dio e il mio parlare con i fratelli, il mio tacere, il mio agire e la mia impossibilità di agire. La preghiera incessante, che anche S. Paolo raccomanda ( Ts 5, 17; Rm12, 12; Col4, 2; Ef 6, 18 ) si ha quando il culto che viene celebrato nel rito viene espresso nella vita del cristiano. Così tutta la vita diventa una liturgia! In 2Cor 9,12 la carità verso i fratelli bisognosi è un servizio liturgico (9,12); in Rm1, 9 la predicazione del Vangelo è “liturgia spirituale”, e in Rm 12,1 vengono esortati i fratelli ad offrire i loro corpi “come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale”. S. Tommaso dice, ispirandosi a S. Agostino e a tutta la tradizione, che la causa della preghiera è il “desiderium caritatis” il desiderio della carità.
Nel Deuteronomio ci vien detto: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, tutta l’anima e con tutte le forze” (6, 5): si tratta qui di una carità totale di cui non si può indicare il limite; ma se l’aspirazione a questa carità (desiderium caritatis) è la causa della preghiera, anche la preghiera è senza limiti, è coestensiva ad un amore senza misura. Essendo dunque uno solo lo spirito che anima preghiere ed opere buone, prega sempre colui che alterna preghiera ed opere conformi alla volontà di Dio. Qui il significato di preghiera si estende ad una disposizione profonda che anima le nostre occupazioni. Il problema l’ha risolto Origene quando ha affermato nel suo “De oratione” (XI):”Prega incessantemente colui che aggiunge alla sue opere giuste la preghiera, alla preghiera le azioni convenienti”. E’ questo il canto nuovo che si richiede all’uomo nuovo emerso dalle acque del battesimo. Non posso non citare S. Agostino perché nelle mie vene c’è sangue benedettino e in S. Benedetto c’è molto d’Agostino, il quale esorta: ”Cantate con la voce, cantate con il cuore, cantate con la bocca, cantate con la vostra condotta santa: cantate al Signore un canto nuovo (Sal 149,1)….Siate voi stessi quella lode che si deve dire e sarete la sua lode se vivrete bene”. Questo è il “mens concordet voci” che S. Benedetto raccomanda ai suoi monaci.

Conclusione

La conclusione della preghiera incessante potrebbe coincidere con quella della visita ad un monastero benedettino, perché l’esistenza di una comunità monastica potrebbe essere definita una preghiera incessante. Di questa preghiera la liturgia delle ore offre i momenti forti, perché in essa continua la celebrazione del mistero della salvezza, nella quale il monaco e la comunità monastica s’integrano in quella preghiera incessante che Cristo nella sua Chiesa, con la sua Chiesa, rivolge al Padre. Per questo l’Opus Dei, pur non essendo l’unica parte della vita del monaco, ne è la parte eminente cui nulla si deve anteporre:”Nihil operi Dei anteponatur” RB XLIII, 3). Le Ore liturgiche ritmano la giornata del monaco, sostenendone tutto l’arco,
“ come i piloni di un ponte” (De Vogue). Celebrandola la comunità monastica obbedisce al comando di pregare sempre quale lo vediamo nella Sacra Scrittura. (Lc 18;At 2.4; 1Ts 5,16-18; Rm 12,12; Col 4,2; Ef 16,18).
Prima di lasciare il monastero, completiamo la visita visitando la biblioteca. Ogni monastero benedettino ha una biblioteca più o meno grande; più o meno ricca di volumi. L’apporto dei Benedettini nel campo della cultura è stato sempre grande; se i capolavori della letteratura classica sono giunti fino a noi, lo si deve in gran parte agli scriptoria dei benedettini. Ma l’opera culturale di questi non si è fermata là, ha continuato nei secoli a contribuire ampiamente alla formazione umana e cristiana delle coscienze, all’elevazione spirituale degli uomini di tutti i tempi. Mentre il nostro sguardo si posa su tutti quei volumi, in un angolo della biblioteca, un monaco tutto assorto nella lettura attira la nostra attenzione. L’angolo è illuminato dalla luce raccolta e discreta del sole che volge ormai al tramonto. E’ l’ora della lectio divina (RB cap. XLVIII): è questa una delle colonne su cui poggia la spiritualità monastica. Ogni giorno il benedettino dedica uno spazio di tempo alla lectio divina. Si tratta di una lettura dedicata alla parola di Dio. E’ una lettura calma in cui il monaco si mette in rapporto con Dio, con atteggiamento d’amore: come si fa con la lettera di una persona amata. La S. Scrittura è infatti la lettera di Dio a noi suoi figli: si tratta di accogliere nel nostro cuore la sua parola. Non bisogna mettersi in quel momento davanti al Libro con atteggiamento critico, mettendo fra noi e quello che Dio dice i nostri ragionamenti che sono sempre una infrastruttura. E’ un cibo che tu prendi per assimilarlo, perché diventi tessuto della tua carne, quindi è una lettura lenta, ripetuta, “ruminata” dicono i Padri. E si ha allora il momento in cui senti dentro di te la luce ed il calore di Dio, una conoscenza che si chiama conoscenza d’amore. Nessuno sforzo della più alta intelligenza umana potrebbe dare una conoscenza di Dio così profonda, immediata, intima, come può fare la conoscenza d’amore. Perché Dio è amore, e solo attraverso questa via puoi conoscerlo. Perciò la lectio divina diventa una lettura orante. Si capisce allora quale spazio privilegiato essa è nella giornata di un monaco, l’uomo dell’ascolto, l’uomo che cerca Dio. S. Benedetto era tale. La sua Regola sgorga dalla Sacra Scrittura in modo quasi naturale, come una sorgente dalla roccia. La Sacra Scrittura è l’humus naturale della Regola: come attraverso un cristallo terso e trasparente, attraverso la Regola leggiamo la Parola di Dio, ed è evidente che di questa S. Benedetto si nutriva, di questa viveva.
Ed è venuta l’ora di concludere la nostra visita; fuori è già buio, ma ci portiamo dentro di noi una visione di pace e tanta luce.

Suor Beatrice


LETTERE A FAUSTA

RIFLESSIONI SULLA QUARESIMA

In una rubrica come questa intitolata “Spiritualità”, vorrei chiarire subito che per me, in quanto cristiana, vita spirituale vuol dire vita plasmata dallo Spirito Santo. Un lungo uso spesso banalizza le espressioni. Ma quando queste riacquistano il loro significato si rivestono di splendore. Vorremmo dire che non si può parlare di vita spirituale se non si parla di conversione, perché la vita spirituale è un cammino, un esodo da vivere sotto la guida dello Spirito, verso la Pasqua. Vita spirituale vuol dire passione,amore che spinge continuamente l’uomo a cercare quel Dio la cui immagine è impressa nel suo cuore,a desiderare la comunione completa con lui. Questa passione è anche in Dio. E’ una ricerca appassionata l’uno dell’altro, capace di sofferenza l’uno per l’altro, nella tensione verso un’unione perfetta. Nella Quaresima, tempo forte, noi viviamo più intensamente questo: la Chiesa c’invita continuamente ad una maggiore consapevolezza di questo mistero d’amore che viviamo sotto l’azione dello Spirito, ad una revisione del nostro modo di viverlo, ad un ulteriore slancio verso l’incontro desiderato, cioè verso la Pasqua ultima, di cui la Pasqua liturgica è segno, è preannuncio. La Quaresima è il tempo di una più viva partecipazione all’azione salvifica di Cristo mediante lo Spirito “ se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria” (Rm. 8,17), e da ciò deriva il suo carattere sacramentale Anche le opere penitenziali sono il segno della nostra amorosa partecipazione al mistero di Cristo che per noi si fa penitente col suo digiuno di quaranta giorni nel deserto,e soprattutto con la sua passione e la sua morte. Ed è il Signore stesso che dona efficacia alla nostra penitenza la quale diventa così un’azione liturgica, cioè azione di Cristo e della sua Chiesa. Questo è chiaramente espresso nel Prefazio IV di Quaresima : ”Tu, o Dio, vinci le nostre passioni, elevi lo spirito, infondi la forza e dai il premio per Cristo nostro Signore”.
Questa sicurezza che è lui stesso, il Signore, a vincere le nostre passioni, ad elevare il nostro spirito, a infonderci forza, m’incoraggia, mi dà fiducia nel cammino quaresimale verso la Pasqua, mi dà gioia! Si può parlare di gioia quaresimale? Si, ed anche d’intensa gioia, perché, come abbiamo detto, il Signore cammina accanto a noi, e perché attendiamo l’avvenimento più importante della nostra esistenza, anzi attendiamo ciò che dà senso a tutto il nostro esistere: la Pasqua! S. Benedetto nella sua Regola, nel capitolo che tratta della Quaresima, usa due volte il termine gaudio: è il gaudio spirituale che ci dovrebbe animare in questo tempo forte dell’anno liturgico!
Vita spirituale è quindi vita di conversione e conversione è cambiamento di direzione, è ritorno,
è un voltare le spalle agli idoli per guardare al Dio unico e vivente ed accettarlo pienamente nella propria vita. L’ascolto più frequente della Parola di DIO, la preghiera più intensa e prolungata, il digiuno, le opere di carità ci aiutano ad essere disponibili all’azione dello Spirito in noi,altrimenti da soli non possiamo farcela. Perciò diciamo col profeta Geremia:” Fammi ritornare a te,Signore, ed io ritornerò”.Si, perché il peccato, la conversione, non sono un fatto del passato avvenuto una volta per sempre; essi sono sempre presenti perché gli idoli cui si è rinunziato e altri nuovi idoli che sorgono riescono sempre a sedurci e a renderci schiavi. Una vita di fede è quindi un continuo ritorno, un continuo volgere le spalle al male, per volgersi a Dio con tutto il proprio essere. Uno degli apoftegmi che più spesso ricordo e che più mi aiuta
è il seguente:” Fu chiesto ad un anziano monaco :” Abba, cosa fate voi qui nel deserto?” L’ abba rispose :” Noi cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo, cadiamo ancora e ci rialziamo ancora”
Leggevo qualche giorno fa, durante la lectio divina, la Lettera agli Efesini e precisamente le 5,25-27; mi giungevano intanto dalla chiesa,dolci e solenni, le notedi Urbs Jerusalem beata, l’inno per la dedicazione di una chiesa. In Quaresima, in quel momento di preghiera, ascoltare quelle parole già tante volte ascoltate, è stata un’esperienza nuova,forte;

Tunsionibus, pressuris
expoliti lapides
suis coaptantur locis
per manum artificis;
disponuntur permansuri
sacris aedificiis
Da colpi e pressioni
levigate le pietre
sono rese adatte alla loro collocazione
dalla mano del costruttore:
sono disposte in modo da restare salde
nel costituire gli edifici santi

Per la verità quei colpi e quelle pressioni per levigare le pietre, non è che mi entusiasmassero tanto dandomi gioia,(specialmente in quel latino così incisivo e martellante); era piuttosto un senso di timore che affiorava, nella consapevolezza della mia fragilità, di quella debolezza naturale che ci accompagna dalla nascita alla morte e che tanto spesso ci induce a cedere ed a indietreggiare quando ci è richiesto il sacrificio di quanto abbiamo di più caro e della stessa vita. Colpi e pressioni! E’ il martirio! Martirio vuol dire testimonianza, anche non cruenta, ma certamente sofferta, solida e senza compromessi o cedimenti. Ne ho il coraggio? A questo punto una splendida figura si è delineata sul mio orizzonte spirituale. “Coraggio, sono io! Sono lo Sposo che ho amato tanto la mia Sposa da dare me stesso per lei,che la purifico per renderla sempre più bella, tutta gloriosa!”(cfr: Ef. 5,25-27) E rimasta nel mio cuore la lectio divina di quel giorno di Quaresima!

Suor Beatrice

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Carissima, quando sei venuta a Montefiolo anche tu, come tanti altri specialmente di gruppi giovanili, eri interessata alla nostra vita. Mi hai posto due precise, anche perentorie domande: ”Perché ti sei fatta suora? Perché benedettina?”. Adesso sento che quanto ti ho detto di Montefiolo e della unità di vita rimarrebbe incompleto se non cercassi di rispondere a queste tue domande. Ti dico subito che non è facile, e sarei tentata di darti la risposta che dava S. Agostino quando gli si chiedeva che cosa è l’essere: ”Se me lo chiedono, non lo so, se non me lo chiedono…. lo so”. Risposta evasiva, ma forse l’unica vera. Si, perché quando un’esperienza intima, tutta tua, invade tutto il tuo essere è difficile farla passare attraverso il filtro del ragionamento e delle parole. Diminuiresti tutto. Qui non c’è psicologia, non ci sono esami introspettivi che tengono. Come fai a sapere e a dire perché una persona di cui ignoravi l’esistenza, o della cui presenza non ti accorgevi neppure, o che forse hai amato da sempre senza saperlo, a un certo punto ti prende come una novità che ti affascina e da cui non sai più distogliere lo sguardo, perché senti che è la tua ragion d’essere e che senza di lei la tua vita non avrebbe nessun senso? E senti che tutto il resto non conta, che devi liberarti di tutto per poter stare con lei,sola con lei soltanto, perdere la tua vita per lei? Questa persona è Dio ed io l’ho incontrata, Era un alba dorata che preannunciava un giorno pieno di sole e mi invitava a progettare una giornata di mare, con tanta gioia e tuffi nell’acqua limpida del mio bel mare calabrese. Sono arrivata un po’ tardi a Messa, il sacerdote stava leggendo il Vangelo e in quel momento mi sembrava che riecheggiassero in modo particolare le sue parole: “Vide un pubblicano seduto al banco delle imposte e gli disse :”Seguimi”. Egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì.”
Per tanti giorni è stato come se una voce dolce e ferma mi ripetesse “SEGUIMI” e quel lasciare tutto, quell’alzarsi e seguire,erano parole che non mi lasciavano più , come se fossero andate a scolpirsi nel mio cuore. Qualche tempo dopo sono venuta a Montefiolo per fare gli Esercizi spirituali, e qui in questo profondo silenzio e contemplando le bellezze del creato, quel dolce invito mi inseguiva e sempre più entrava nel mio cuore, mi conquistava : Seguimi! E da Montefiolo ho scritto ai miei che avevo deciso di lasciare tutto, di alzarmi e seguire Colui che era diventato il Signore della mia vita! Ma chi ti apre gli occhi per farti vedere la novità, chi ti rende una persona nuova , chi ti dà la forza e la gioia di decidere è l’amore del Padre che prende sempre l’iniziativa . E qui entriamo nel mistero: bisogna solo viverlo e lasciarsi sempre più prendere e perdersi in questo fascinoso e tremendo abisso d’amore.
Una mia convinzione personale è che per intuire e sperimentare meglio certi aspetti dell’amore divino si può cercare di stabilire un’analogia con l’amore umano. Quando questo è vero, beninteso. Anche l’amore umano è rivelazione e mistero,anche esso è novità che ti fa una persona nuova. Ma è solo un’analogia, un metodo pedagogico se vuoi, la dimensione è fondamentalmente diversa. Ma, ripeto si tratta solo di una convinzione personale.
Vorrei chiarire che quello che ho detto si può vivere anche senza entrare a far parte di un determinato istituto religioso con un determinato regolamento di vita. Ma se per motivi diversi di predisposizione e tendenze o motivi umani, in cui s’intravede anche la volontà divina , decidiamo di viverlo in forme concrete di vita, ispirate e volute anche esse dall’amore divino, allora si spiega perché al sostantivo vocazione si può aggiungere un aggettivo qualificativo, come per esempio:benedettina.
Ed eccomi alla seconda domanda: perché benedettina?
Essere benedettini è un determinato modo dì essere, di vivere, e più lo si vive e più si sviluppa e si specifica. Per questo più che darti definizioni astratte ed incomplete preferisco presentarti concretamente alcuni aspetti del vivere benedettino. Alcuni anni fa avevo il compito di guidare i visitatori delle catacombe di Priscilla che si trovano sotto la nostra Casa di Roma.
Adotterò il mio antico schema di lavoro e ti guiderò a fare una visita ideale in uno dei tanti monasteri benedettini del mondo. Immaginiamo dunque di trovarci davanti al portone di una Casa benedettina. Subito al nostro sguardo si presenta l’emblema benedettino scritto a grandi caratteri sull’arco soprastante, è la parola PAX. E’ un emblema perché la vita benedettina s’ispira a questa pace. Non certo una pace falsa, una pace di compromesso fondata sull’accomodamento. Per capire meglio il significato pieno della pace benedettina permettimi una breve parentesi linguistica. Questa parola,pace, ha spesso significato di saluto e messaggio. E’ il saluto che Cristo risorto dà ai suoi discepoli. E’ il saluto ed il messaggio che la comunità benedettina dà a chi entra nella sua Casa. E’ piuttosto un segno che già di per sé comunica ed attua in parte la realtà indicata: la pace. Infatti questo saluto ha una forza obbligante per chi lo porge, in questo caso per la comunità benedettina che accoglie l’ospite, perché egli si rende responsabile per la pace della persona cui il saluto è rivolto, accordandole di partecipare alla sua pace, al suo benessere. La pace è un ambito in cui chi è così salutato si sente subito accolto, è un saluto che presuppone di per sé un rapporto di naturale fiducia, e di per sé stabilisce per così dire un alone di pace. Ma le parole spesso tradiscono il pensiero, oppure il loro uso frequente, a proposito o a sproposito le svuota di significato. Così il termine pace nelle varie lingue ha significato e significa spesso una non-guerra, assume un significato relativo, è in relazione alla guerra. Invece la comunità benedettina che porge questo saluto vuole dare a questo termine il suo significato pieno ed assoluto, e questo lo si deduce da tutta la Regola di S. Benedetto. C’è un termine che significa pace in senso pieno, nella sua totalità, nel significato globale di pienezza d’ogni bene. E’ il termine ebraico “SHALOM” la cui radice SLM significa in tutta l’area semitica, benessere totale. Si tratta di un ricupero della integrità assoluta dell’uomo, nel suo rapporto con se stesso, col suo ambiente naturale e umano, con Dio, l’uomo senza il suo rapporto con Dio non è intero, lo è solo nella viva percezione di essere in rapporto con Dio: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla” (Sal. 22). Per definire ancora meglio il significato della pax benedettina, vorrei citare S.Agostino che ha scritto una piccola metafisica della pace nel libro XIX del De Civitate Dei. Con la sua definizione“ Pax omnium rerum tranquillitas ordinis” dà al termine pace il significato di un rapporto ordinato e senza turbamenti, di un ordine armonico nel quale entità diverse sono rapportate reciprocamente in modo da esistere tranquille secondo la loro determinazione naturale, ognuna al suo posto. La preoccupazione di Benedetto è che tutto si faccia in modo che regni la pace fondata sull’equilibrio e sul famoso principio della discrezione. Equilibrio che ripartisce le ore della giornata fra la preghiera ed il lavoro, equilibrio che tiene conto di tutta la persona umana, della sua dignità, delle sue possibilità e dei suoi limiti, della sua integrità. E c’è il principio benedettino della discrezione ad assicurare la pace. Per quanto riguarda l’osservanza esteriore S. Benedetto non prescrive nella sua Regola norme dettagliate rigidamente assolute, C’è una flessibilità, un ordine dinamico: ogni persona è una realtà concreta vivente, diversa dalle altre, e di questa diversità di persone si tiene conto nella Regola: diversità di provenienza, di carattere, di cultura e di doni, con una fondamentale uguaglianza in Cristo, perché tutti ugualmente figli di Dio. C’è anche la diversità di circostanze esterne (luogo, tempo, ambiente) di cui bisogna tener conto. Entra quindi il principio della discrezione, che è una novità rispetto alle regole precedenti.
Questo augurio di pace intesa in senso pieno ed assoluto ci dà fiducia e c’incoraggia a varcare le soglie del monastero.

Suor Beatrice

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Carissima Fausta, non deliberatamente, ma provvidenzialmente direi, questa rubrica di spiritualità è iniziata con “Una giornata di Gesù” di Don Matteo. Perché ti dico questo? Perché volendo io parlarti in alcune lettere della spiritualità che anima la comunità benedettina cui appartengo, quale migliore introduzione di questa? Gesù in orazione, Gesù in azione, in una unità di vita che non conosce dicotomia fra contemplazione ed azione: è semplicemente la stessa vita di continua unione col Padre che si esprime nei due modi. Per la mia comunità si tratta piuttosto di un’unità di vita in cui tutto diventa estensione del mistero di Cristo celebrato su quell’altare che è centro della vita della comunità e vertice verso cui tutto converge. Ciò si esprime nel ritmico “ora et labora” benedettino, ma dovrebbe essere espresso nella vita di ogni cristiano radicato nel suo Battesimo ,che trascorre quindi la sua giornata terrena in sintonia con la giornata di Cristo.
Di tale orientamento spirituale,a noi Benedettine di Priscilla viene continuamente riproposto un modello dall’antichissima Fractio Panis di un affresco che si trova nelle catacombe sottostanti la nostra Casa di Roma sulla Via Salaria. Vi sono raffigurate sette persone sedute intorno ad una mensa; un personaggio a sinistra tende le mani nell’atto di spezzare il pane. La scena è completata da sette ceste di pane poste ai lati della mensa. Una stupenda didascalia di questa immagine potrebbe essere uno dei primi documenti cristiani, la Prima Apologia di Giustino che descrive il rito eucaristico del secondo secolo. Ivi il gesto di Cristo,ripresentato dal rito, trova risposta e continuazione nel gesto concreto del servizio ai fratelli, nella carità umana che diventa elemento essenziale del rito stesso . Così la Frazione del Pane riunisce
la comunità ecclesiale, la costituisce come tale, diventa principio animatore del suo agire, del suo vivere.:::

Questa è unità di vita perché la liturgia celebrata sfocia nella vita, diventa liturgia di vita. Una comunità religiosa ha il dovere di testimoniare questa unità di vita, ma ogni cristiano in quanto tale ha il dovere di realizzarla se non vuole vivere da schizofrenico. Che significato hanno le piazze strapiene , le chiese piene di gente che si riunisce davanti ad un altare, se poi si vive come se la vita non avesse senso , in un disorientameno spaventoso?
Dove è “la giornata di Gesù”?
Nel tuo bell’articolo apparso sul Giornale di Rieti, intitolato “Montefiolo, quattro giorni indimenticabili”, dici che il termine “silenzio” può apparire desueto. Poi dici di avere ascoltato conferenze sull’umiltà,l’obbedienza, la misericordia,l’ascolto, la centralità della parola di Dio, la serenità che non è rassegnazione, il “ruminare” continuamente la parola di Dio . Io penso che anche questi termini siano piuttosto “desueti” nel mondo di oggi. Finisci con l’affermare che “trascorrere un periodo di ritiro spirituale nel convento di Montefiolo è un’avventura entusiasmante”.Forse, senza volerlo, hai suggerito qualche cosa di cui il mondo di oggi ha estremamente bisogno: luoghi e tempi dello spirito dove riflettere e ritrovare la bellezza e la necessità di valori indispensabili per ritrovare se stessi ed il senso del loro vivere. Forse in qualche luogo che per la sua bellezza e la sua pace potrebbe definirsi un paradiso terrestre, l’uomo d’oggi potrebbe sentirsi interpellato dalla voce divina:- Adamo,dove sei?- Si accorgerebbe allora di essersi troppo allontanato da Dio e sentirebbe la necessità di ritornare dal Padre che lo aspetta con amore infinito.
In quei quattro indimenticabili giorni avrei voluto parlarti più dettagliatamente di Montefiolo, ma non abbiamo avuto molto tempo. Mi propongo di farlo nella prossima lettera. Con i miei più cordiali saluti

Sr. Beatrice

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Cara Fausta, mantengo la promessa di parlare un po’ con te di questo Montefiolo che ha entusiasmato te, ma non solo te. Tutti quelli che per la prima volta vengono su questo colle che sorge nel cuore della Sabina ne rimangono affascinati ed esclamano:” Ma questo è un paradiso!”. Perché, si, la bellezza del panorama desta ammirazione, stupore, ma c’è qualche cosa di più in questo luogo. La varietà del paesaggio si compone in una serena e ridente armonia da cui si diffonde una quiete, un senso di pace che ti prende e ti conquista. Il silenzio è profondo ed è come se tutto fosse impregnato di divino. Tu ti senti subito in un altro mondo, forse quello cui tutti aspirano. E mentre lo sguardo s’inalza fino alla cima dei secolari cipressi che caratterizzano questo luogo,
pensi davvero che esse sono come il dito di Dio puntato verso il cielo! Ma questa potrebbe essere anche la definizione di tutto questo colle e della Casa benedettina che sorge sulla sua cima: un dito di Dio che punta verso il cielo. Penso che questo significhi una comunità orante posta su questo colle. La vista che si ha da Montefiolo nelle giornate serene è delle più impressionanti. In direzione di mezzogiorno appare all’orizzonte la cupola di S.Pietro.Verso ponente Monte Mario e le alture fino al Soratte,maestoso,e poi in lontananza il Monte Amiata. Seguitando a volgersi verso settentrione, lo sguardo incontra il Vacone, i monti Martani, e a levante i Sabini con il loro manto sempreverde di elci e di ginepri, culminanti col Pizzuto coronato di faggi. Poche altre alture,vicine a Roma offrono un simile orizzonte, ma nessuna offre la visione di pace che questo luogo offre. Ed è come se una storia plurisecolare sia passata senza lasciare i suoi profondi inesorabili solchi su questa terra che sembra conservare intatto l’incanto di una originaria bellezza. Eppure la storia è passata attraverso tanti secoli.. Ne parlano i ruderi di ville romane dell’epoca mimperiale sparsi nelle pendici meridionali di Montefiolo. Sulla cima del monte deve essere stata costruita una rocca, venuta in proprietà dei figli di un certo Ugone, per cui il colle intero fu chiamato “ mons filiorum Ugonis” donde deriva il nome attuale.
Di questa rocca rimanevano soltanto le rovine nel 1391,quando l’allora proprietario del colle, Giovanni di Sant’Eustachio, ne fece donazione al comune di Aspra (oggi Casperia), con l’obbligo di costruirvi una chiesa e la casa per due preti. Un cittadino di Aspra, Francesco Massari, tesoriere della Camera Apostolica durante i pontificati di Giulio III e di Marcello II, dispose nel suo testamento che venisse restaurata ed abbellita con affreschi.la chiesa di Montefiolo dedicata al Salvatore. L’abitazione annessa a tale chiesa fu ampliata e trasformata in convento di cappuccini all’inizio del Seicento, e tale rimase fino al 1868, anno in cui ne divenne pro-prietario il comune di Aspra. Tre secoli di grandezza spirituale hanno dato a questo colle un’aureola di fede vissuta e di santità ! Nel 1882 il Collegio lombardo acquistò il convento e compì grandi opere di restauro e di ampliamento. Oggi a Montefiolo c’è una delle tre Case delle Benedettine di Priscilla, la Casa della Risurrezione. Una casa per Esercizi Spirituali, frequentata da molti laici e religiosi, desiderosi di un incontro con Dio nella quiete e nel silenzio di questo luogo. Le Suore vivono qui il loro carisma benedettino cercando di condividere e di diffondere la loro esperienza di fede.Desiderosa di parlarne con te, lo farò nella prossima lettera. Un caro saluto

Sr. Beatrice

 


ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE

Il Vangelo odierno ci suggerisce una bellissima meditazione. Luca ci offre un incontro irripetibile, una esperienza unica tra il Creatore e la creatura, tra l'Essere e il nulla, tra il Padre e la figlia. Lo scopo è di cambiare la storia e la situazione umana. L'iniziativa della novità parte da Dio. "Rallegrati, o piena di grazia, il Signore è con te". Non è un saluto o augurio qualsiasi, ma è un invito gioioso e fiducioso. Un invito che esprime una novità assoluta, una garanzia, una elezione. "Rallegrati, o piena di grazia.. Ci ricorda la consacrazione della Vergine, Ella è destinata per una missione altissima, una missione universale. Con questo saluto Maria trova un dono, una grazia, un mistero. Dio ha guardato l'umiltà della sua povera creatura. La grazia che Eva ci tolse ci è stata ridata in Maria. Di fronte al mistero la Vergine concepisce nel suo grembo il Verbo del Padre, il Figlio si fa uomo e così l'Eterno entra nel tempo, l'immenso si racchiude in un piccolo e fragile corpo umano, l'invisibile diventa visibile, il Creatore si fa creatura, il Padrone del cielo e della terra diventa un povero. "Rallegrati, o piena di grazia,...". Dopo la certezza dell'angelo, la Vergine senza paura, si apre a Dio, si consegna a lui, si fida di lui e dice: "Eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto". Maria manifesta totalmente la sua disponibilità, presenta il suo "sì" con entusiasmo, con convinzione ma anche con la trepidazione. Maria si umilia, si abbassa, diventa serva. La Vergine è felicissima di prendere l'ultimo posto per fare nascere e servire la nuova umanità. Nella sua umiltà diventa la Madre di Cristo, Madre della Chiesa. Tutta l'esistenza di Maria, è un itinerario di libertà donata, un perseverare nell'abbandono a Dio lasciandosi docilmente plasmare e guidare da lui. Il suo “sì” in risposta all’offerta divina e il cambiamento drammatico di vita che ne sarebbe seguito, mostrano che la! venuta di Dio in mezzo a noi esige un cambiamento radicale. Ma, cosa più importante, l’Annunciazione a Maria ci pone di fronte ad una grande verità: ognuno di noi ha avuto un’“annunciazione” personale. Nell'eccomi di Maria pensiamo all'ecco mia della nostra vocazione cristiana o religiosa. Nel giorno in cui abbiamo risposto "sì" al Signore che ci ha chiamato nella sua vigna, ci siamo impegnati a fare di quel "sì" l'unica parola della nostra vita. Purtroppo la nostra esperienza ci dice che accanto ai "sì" ci sono stati anche dei "no". Il Signore però non ci abbandona. Egli è fedele alla sua chiamata e per questo ogni giorno, in mille modi, ci rivolge nuovamente il suo invito: "Seguimi", e attende da noi una rinnovata risposta. Rispondere ogni giorno e in ogni situazione il nostro "sì" al Signore, il "sì" della libertà e dell'amore, significa lasciarlo libero di agire in noi. "...chi perderà la propria vita per me... la troverà".
Maria accoglie il progetto di Dio con una disponibilità meravigliosa, perfetta, è la serva del Signore. Non cerca gli onori, le soddisfazioni, ma cerca soltanto accogliere la volontà, il progetto di Dio e di essere un’umile sua serva. Dio ha un progetto per noi, un progetto di salvezza, in progetto di amore, un progetto di comunione. Noi accogliamo questo progetto con umiltà e generosità, in unione con Maria e con suo figlio Gesù.

Padre Matteo

 


VIA CRUCIS
Introduzione

Gesù, mio Signore, mi suggeriscono di parlare del tuo cammino sulla Via della Croce. Ac-cetto il suggerimento, ma premetto che non sarà una cronaca fatta da chi guarda da lontano. Camminerò accanto a Te, passo dopo passo. Non sarà una passeggiata romantica, ma quel che importa è stare con Te, fino all’ultimo respiro.

Prima stazione: Gesù è condannato a morte
Ho assistito al tuo processo. Se non avessi Te come punto fermo di riferimento nella mia vita, sarei uscita da questo processo sconvolta, disorientata, e mi sarei fatta travolgere a quell’ondata di relativismo che invade il mondo di oggi. E’ stato certamente il più grande paradosso della storia umana. L’errore che condanna la Verità. La cecità delle più fitte tenebre che giudica la Luce. Una sola parola “crucifige” è bastata per uccidere la Parola eterna. Da una parte il tumulto di una folla che non sa quello che fa e dice, dall’altra il silenzio eloquente di chi sa e tace. Si indagava sulla tua identità, subdolamente ed astutamente, e TU l’hai rivelata col tuo silenzio. Sei tu re? Sei tu figlio di Dio? Tacendo hai rivelato di essere il Giusto sofferente che non risponde agli scherni ed agli insulti, perché si adempiano le Scritture. Dominava Il silenzio fecondo di chi soffre e tace perché si adempia il disegno del Padre. Cosa è la verità? La domanda di Pilato rimbalza di secolo in secolo nella storia dell’uomo. Eppure, come davanti a Pilato, la Verità sta davanti all’uomo di tutti i tempi, ma l’uomo non la riconosce. Se la riconoscesse ne sarebbe conquistato e sarebbe finalmente libero.

Seconda stazione: Gesù è caricato della Croce
Ed ecco la Croce, Signore! O mio Gesù, sono uomini o sono belve feroci quelli che te la stanno caricando sulle spalle? TI guardo piena di sgomento, per dirti che ti sono vicina, e vedo la tua espressione indefinibile. Tutto ciò che un uomo può soffrire è dipinto sul tuo volto: sei un vero uomo! Ma amiche tutto l’amore che solo un Dio può provare: sei un vero Dio! Ed è tanto l’amore che quasi non senti la fatica immane cui ti soppongono. “Il mio giogo è leggero” hai detto. Ed ecco! Appena viene messo sulle tue spalle lo strumento di tortura, un prodigio si offre agli occhi di chi ti sta molto vicino ed ha acquistato uno sguardo di fede. Quel legno ormai privo della linfa vitale naturale, viene ravvivato da un’altra linfa che lo fa fiorire, fiorire all’infinito. O croce santa su cui l’Amore sarà crocifisso per unire la terra al cielo, noi ti adoriamo!

Terza stazione: Gesù cade per la prima volta
Ma diventa troppo pesante anche per Te quel legno che porti sulle spalle! Si carica di tutti i peccati del mondo e tu cadi quasi schiacciato da quel peso; chi può aiutarti? Questa può essere solo l’impresa di un Dio! E infatti Il Padre non ti abbandona, e neppure l’amore di quanti vorrebbero aiutarti. Ma aiutarti significa anche non aggiungere il peso dei propri peccati, e questo avviene solo se sorretti dall’amore che fiorisce su quel legno. E ti rialzi perché la strada la devi percorrere tutta,fino alla fine,un compito esclusivamente tuo in cui nessuno può sostituirti

Quarta stazione: Gesù incontra la Madre
Ma adesso alza gli occhi, Signore, per vedere chi ti sta davanti! E’ la Madre tua! Aspetta solo che il tuo sguardo incontri il suo! Non è il momento di parlare! Lei sta lì, impietrita dal dolore, solo le labbra impercettibilmente si muovono per dire una sola parola: Figlio, figlio mio. Non credo che, come dicono alcuni, stia ripensando alle antiche promesse e un sentimento di delusione invada il suo cuore. no, lei è tutta presa dal momento presente e da quel-lo che sta per accadere. Come può una mamma sopportare questo peso, il peso della tua Croce? Guardala, divinamente bella nel suo dolore! Deponi per un momento la croce, avvicinati a lei, abbracciala, la tua Mamma, che sta soffrendo con te, forse più di te Forse, abbracciandola, le infonderai l’intuito dell’amore, perché senta che tu rimarrai sempre con lei! Forse intuirà che le sue lacrime si fonderanno con il tuo sangue per formare quel fiume d’amore che attraverserà il mondo salvandolo. Forse la potrai far sorridere di speranza!

Quinta stazione: Simone di Cirene porta la croce di Gesù
I soldati romani costringono quest’uomo a portare la croce, non certo per amore tuo, ma perché temono che tu non possa arrivare fino in fondo. Anche Simone è inconsapevole del valore che porta sulle spalle. Sono strumenti di cui Dio si serve per eseguire il suo piano di salvezza. O mio Signore,tu ci fai dono della tua croce, ci fai partecipi della tua sorte; un dono che dobbiamo accettare con gratitudine,perché il Padre l’ha scelta per te, figlio suo e perché chi non prende la sua croce non è degno di te,( Mt 10, 38)

Sesta stazione: La Veronica asciuga il volto di Gesù
Adesso una donna si fa strada fra i soldati che ti scortano; si avvicina a te e , trepidante, delicatamente poggia un velo sul tuo volto per asciugare le lacrime ed il sangue che lo coprono. E tu, Signore, le fai un dono regale, il più bello che potevi fare! Tu dai sempre il centuplo! Il tuo volto rimane impresso su quel velo! Ma cosa mai sta provando la donna in quel momento! Vedo che stringe al suo cuore quel velo, stringe a sé il tuo volto, quasi voglia lasciarlo impresso nel suo cuore. E all’uomo di tutti i tempi. Veronica dirà che il più piccolo atto di bontà, di delicata ed anche impercettibile attenzione per il fratello che soffre, non è perduto: ogni volta la tua immagine s’imprimerà nel cuore di chi fa il bene, rendendolo sempre più simile a te; ogni volta un piccolo raggio del tuo amore si diffonderà nel mondo per parlare di te ed affrettare la venuta del tuo regno.

Settima stazione: Gesù cade per la seconda volta
Sembra che le forze ti abbandonino sempre più, sembra che non ce la fai ad arrivare fino in fondo! Cadi per la seconda volta, ma per la seconda volta ti rialzi. Come sempre, sei un esempio per noi! Ci dici di non lasciarci abbattere dalle forze del male che dilaga nel mondo in tanti modi; ci dici di non scoraggiarci se ci sembra che siamo deboli e sempre esposti alle cadute; ci dici che allora siamo forti, quando siamo deboli, perché la nostra forza è l’amore del Padre che vede e provvede. Tutto possiamo in Colui che ci dà forza, : anche rialzarci e rialzarci sempre, perché se Dio è amore non può essere un contemplatore passivo delle nostre cadute. Ci esorti a non lasciarci sconfiggere dalla croce, a non lasciarci abbattere dalle piccole morti quotidiane, perché a chi confida in te, tu fai il dono di piccole quotidiane risurrezioni.

Ottava stazione: Gesù ammonisce le donne di Gerusalemme
Una gran folla di popolo e di donne ti sta seguendo, Gesù; le donne si battono il petto e fanno lamenti su di te. Sta per essere messo a morte chi le ha riscattate, chi le ha valorizzate, dando loro una precisa identità e un ruolo. IL ruolo delle donne è grande ai tuoi occhi, Signore: esse hanno il ruolo di portare nel mondo il tuo amore e la tua tenerezza, la tua compassione, in una sola parola, la tua “maternità”; hanno il compito di portare la vita, darla alla luce, custodirla, difenderla, farla giungere al suo pieno sviluppo. Darai loro il preciso, impegnativo e splendido mandato di annunciare e testimoniare la tua risurrezione. Il loro stesso pianto qui, in questo momento, ha valore di un annuncio come espressione di dolore per le sofferenze umane, ma anche come protesta contro una condanna ingiusta. TU le vuoi piene di amore e di tenerezza, ma anche coraggiose e determinate quando i valori che contano sono molto discussi ed in pericolo e quando c’è da riconoscere i segni dei tempi. Vuoi soprattutto che esse si sentano responsabili per il futuro dei loro figli.

Nona stazione: Gesù cade per la terza volta
Per la terza volta, Signore, ti vedo stramazzato a terra sotto il peso della croce. Sei ormai sfinito, oltre i limiti delle tue forze, e questa tua terza caduta è una dimostrazione evidente della tua incapacità di proseguire. È un’umiliazione: sei a terra, hai bisogno degli altri per rialzarti e andare avanti, dipendi dagli altri, non sei più libero di muoverti come vuoi, inoltre sei pure schernito, maltrattato. Potresti dire col Salmista:” Verme sono, non uomo!” Sei ridotto a niente, annientato!. Ma è quello che volevi tu, sulla via che hai scelto in piena armonia con la volontà del Padre. E’ appunto l’annientamento, la kenosis! Ma è allo stesso tempo la piena realizzazione di te stesso: tu sei Amore, e in quanto Amore ti stai realizzando in pieno; vuoi essere niente, perché l’uomo sia fratello tuo, figlio di Dio. Signore, aiutaci a saper soffrire con te e per te, ad accettare le umiliazioni per amor tuo, ma anche a rialzarci, senza mai assolutizzare il dolore, perché la croce senza risurrezione non ha senso!

Decima stazione: Gesù è spogliato delle vesti
In un totale abbandono nelle mani del Padre, stai lasciando che gli altri facciano di te quello che vogliono. Tu lasci che ti scherniscano, ti sputino addosso, ti percuotano, ti mettano sul capo una corona di spine, adesso ti stanno spogliando delle tue vesti. Reagisci solo quando ti danno da bere vino mescolato con fiele: rifiuti di bere perché vuoi mantenerti vigile onde poter accettare pienamente cosciente e liberamente le sofferenze dell’agonia e la morte. Ti spogliano perciò delle vesti, ma non riescono a spogliarti della tua dignità di uomo che non può rinunciare alla sua libertà e alla sua coscienza nel decidere e nell’agire. Ti lasci spogliare perché liberamente e consapevolmente hai scelto di fare l’unica cosa necessaria: fare la volontà del Padre in una perfetta unione con lui.
Signore, aiutaci spogliarci di tutto ciò che è contrario alla tua volontà, aiutaci ad essere nudi del nostro io e delle sue pretese che contrastano e contristano l’azione ed il trionfo del tuo Santo Spirito in noi, aiutaci ad essere nudamente veri davanti a te, fai che ci presentiamo al tuo sguardo così come siamo senza nasconderci, senza vergognarci, senza inutili menzogne, inutili perché tu ci scruti e ci conosci; sicuri che se ci presentiamo nudi tu ci rivesti del tuo amore. Non voglio pensare in questo momento alla nudità primigenia di cui l’uomo non si vergognava quando Dio passeggiava nel giardino e lo chiamava amico. Penso piuttosto alla nudità battesimale rivestita di grazia, per cui Dio ci chiama figli suoi. Signore, per la ricchezza che hai voluto dare all’uomo lasciandoti spogliare delle tue vesti, rivestici col tuo amore e la tua luce!

Undicesima stazione: Gesù è inchiodato sulla croce
Ed ecco ora l’epilogo del grande dramma: stanno traforando le tue mani con i chiodi che ti immobilizzano sulla croce, ed è come se i chiodi penetrassero nel mio cuore tanto è insopportabile una così inumana brutalità, una così grande ingiustizia! Sono i piedi di chi ha camminato tanto per annunciare la buona novella, sono le mani che si sono alzate solo per benedire, per perdonare, per guarire, per ridare la vita! Due malfattori che hanno fatto solo tanto male nella loro vita stanno su-bendo la stessa tua sorte. Non un grido d’indignazione o una protesta si leva dalla folla che sta ad osservare; dove sono tutti quelli che tu hai beneficato? Tante volte , proprio da chi meno ci si aspet-terebbe, arriva la parola giusta. Solo uno dei due malfattori,rivelando una inaspettata lealtà e nobiltà d’animo, trova, pur nella sofferenza e nell’imminenza della morte, la forza d’indignarsi: ”Noi giustamente siamo condannati, egli invece non ha fatto nulla di male!...Gesù, ricordati di me quando entrerai nel regno!” “Ricordati!”: In alto, sulla croce, risuona la preghiera tipica del popolo eletto che prega chiedendo a Dio di ricordarsi della sua benevolenza, della sua alleanza. In alto sulla croce, con questa preghiera così semplice ed elevata allo stesso tempo,l’antica alleanza sfocia come un fiume, nell’oceano infinito del nuovo patto d’amore, in te, Cristo Signore, che prometti il paradiso! Intanto ti insultano, ti provocano:”Salvi se stesso se è il Cristo di Dio!” Ma tu rispondi rivolgendoti fiducioso al Padre, nella certezza di essere in sintonia con il suo progetto:” Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno!” Ignoranza e perdono! Adesso dall’alto della croce continui ad insegnare e a promulgare la legge del perdono! Ci dici, in altri termini, perché dobbiamo perdonare settanta volta sette,cioè sempre! Perché nessuno sa, nessuno conosce la portata del male che sta facendo, altrimenti nessuno lo farebbe! Signore, sono qui per non perdere nessuno dei tuoi ultimi istanti! Qui, in ginocchio ai piedi della tua croce, cercando di cogliere nel cavo delle mie mani qualche stilla del tuo sangue prezioso e non so dirti altro che :”Ricordati, Gesù! Ricordati di me! Anche in me trovi tanto da perdonare! Ma anche io sono spesso fra quelli che non sanno Ricordati di me che ti ho tanto amato e sempre ti amerò !”

Dodicesima stazione: Gesù muore sulla croce
Adesso tutto è compiuto. E’ buio su tutta la terra! C’è ancora nell’aria l’eco della tua voce, una grande voce rivolta al Padre! Cosa avrai provato, Signore, nel momento supremo del tuo passaggio al Padre! Forse, per qualche istante, l’angoscia di un’abissale solitudine per l’apparente lontananza del Padre, ma subito vinta da quella totale fiducia in lui, che non ti ha mai lasciato, dalla tua sicurezza di sempre, di essere in comunione con lui. Negli ultimi momenti della tua vita ti insultavano, ti provocavano invitandoti a scendere dalla croce per dimostrare di essere figlio di Dio; tu l’hai dimostrato abbandonandoti totalmente nelle mani del Padre. Non dimostrando straordinarie capacità acrobatiche, ma solo mostrando l’amore di un figlio che confida nel Padre hai dimostrato l’essenza della tua regalità e della tua figliolanza. Ti dico sinceramente che non ho potuto piangere su di te, perché la tua non era una morte, era una teofania che mi riempiva di spavento, ma, superato questo, mi riempiva di stupore, di gioia, mi rapiva: mentre il velo del tempio si squarciava, la terra si scoteva, le rocce si spezzavano, i sepolcri si aprivano, si svelava la presenza di Dio! Ma anche gli altri erano presi da grande timore mentre dicevano: “Davvero costui era figlio di Dio!”. Ai piedi della croce la più vicina era la Madre tua: Colei che aveva colto il primo respiro del figlio, era lì ad accogliere l’ultimo battito del suo cuore. C’erano molte donne che ti avevano seguito per servirti,ma stavano ad osservare da lontano; io sono rimasta ai piedi della croce: avevo la sensazione che tu non ti eri allontanato, ma eri più vicino di prima!

Tredicesima stazione: Gesù è deposto dalla croce
Sono rimasta lì a contemplare il tuo corpo straziato e senza vita, fino a quando un uomo au-torevole del sinedrio,Giuseppe di Arimatea, “che aspettava anche lui il regno di Dio”, è venuto a calarti giù dalla croce. C’era lì tua Madre ad accoglierti fra le sue braccia; ti stringeva al suo cuore, ti contemplava, piangendo ti parlava. Per il rispetto di tanto dolore non osavo avvicinarmi: sentivo che era un dolore sacro, davanti a cui bisognava solo inginocchiarsi e pregare. Nel guardarla provavo una sensazione strana: mi sembrava di vedere,riflesse sul suo volto, una dopo l’altra le sequenze ndella tua vita, della tua storia. Forse proprio in quei momenti riviveva più che mai“ gli eventi conservati e meditati nel suo cuore”: l’annuncio dell’Angelo, la tua prodigiosa nascita, la profezia del vecchio Simeone, il fanciullo smarrito e ritrovato che cresceva in età e sapienza diventato poi il Maestro seguito dalle folle. Possibile che tutto sia finito cosi? Forse quel grande amore che l’aveva legata e la legava a suo figlio.

Quattordicesima stazione: il corpo di Gesù è deposto nel sepolcro
Adesso è proprio la fine: anche il tuo corpo viene sottratto al nostro sguardo da una pesante pietra sepolcrale. Chi mai potrà rotolare via questo masso dall’ingresso del sepolcro? Niente di più triste che un sepolcro definitivamente chiuso! Perché continuare a vivere adesso? La mia ragion d’essere è sepolta! Con una tristezza infinita poggio la mia fronte su quel masso duro e freddo. Possibile che l’ingiustizia, l’odio, la menzogna abbiano definitivamente il sopravvento? E non mi decido a lasciare questo posto: mi sembra che ,pur davanti ad una tomba sepolcrale, io sia vicina ancora al mio Signore! E poi una certa speranza incomincia a ridarmi vita: non posso credere che non lo rivedrò più. E mi trattengo così fino all’alba. Quando il cielo incomincia a tingersi di rosa vedo qualcuno che arriva e si avvia decisamente al sepolcro. La riconosco: è Maria di Magdala tante volte incontrata presso il comune punto di riferimento. Ed è lei che per prima vede il masso ribaltato: il sepolcro è vuoto! A me basta questo, perché alla speranza che era andata via via aumentando, subentra adesso quella certezza interiore che si chiama fede. La pietra ribaltata, il sepolcro vuoto, le bende per terra: Vedo e credo, come farà Giovanni poco dopo. Il Signore vive! Una gioia ed una pace infinita inondano il mio cuore. Sento e sono certa che vive e che è qui accanto a me come pri-ma, più di prima!

Suor Beatrice


LA SOLENNITA' DI PENTECOSTE

La solennità di Pentecoste, che celebriamo oggi, chiude il lungo periodo del tempo pasquale. La discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli e la Vergine Maria, riuniti nel Cenacolo, apre le porte alla missionarietà della Chiesa e alla testimonianza della fede cristiana in tutto il mondo. Il dono dello Spirito, infatti, rende coraggiosi e zelanti i pavidi apostoli che ancora avevano paura di affrontare il mondo nel nome di Gesù, crocifisso, risorto e asceso al cielo. Il brano del Vangelo di Giovanni ci riporta a questi contenuti essenziali della Solennità della Pentecoste. E' proprio vero che il Vangelo non ha confini ed a chi si predispone semplicemente ad accoglierlo esso apre nuovi orizzonti di comprensione sulla persona umana e sulla storia stessa dell'umanità. E' l'orizzonte di Dio, della fede, della speranza, della carità.
E' l'orizzonte dello Spirito che invochiamo di venire tra noi per ridarci speranza e gioia nella fede, come ci rammenta la sequenza che letto oggi nella liturgia della Parola. Chi si immerge nello Spirito Santo deve vivere secondo lo spirito e i frutti dello spirito sono enumerati in modo dettagliato dall'Apostolo Paolo nel brano della Lettera ai Galati che ascoltato oggi. Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c'è legge. Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito". La nostra Pentecoste, che già abbiamo celebrato nel sacramento della Confermazione, necessita di essere vissuta, come il Battesimo, ogni giorno, rispondendo appieno a quelle che sono le esigenze di una fedeltà assoluta al Vangelo di Cristo, al quale abbiamo liberamente aderito. Bisogna davvero camminare secondo lo spirito, privilegiando nella nostra vita e nei rapporti con gli altri i valori che contano e che esprimono in modo evidente l'essere credenti e l'essere cristiani davvero. Amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé, apertura agli altri devono essere il decalogo spirituale di ogni cristiano, soprattutto in questi nostri tempi segnati da un crescente distacco dal sacro e dallo spirituale e sempre più caratterizzati come tempi dissacranti e materialistici a tutto campo. Lo Spirito Santo ci faccia dono di questa radicale trasformazione della nostra mente e del nostro cuore, perché possiamo pensare ed agire secondo lo spirito e non secondo la carne che porta all'egoismo, all'odio e assenza di ogni gesto d'amore e di misericordia nella nostra ed altrui vita, se vissuta lontano da Dio, che per sua natura è amore e carità in termini perfetti ed assoluti. Nell'amore e guidati dall'amore, ovvero da questo potente fuoco che arde, se c'è davvero dentro di noi, può scaturire solo il bene, l'armonia e la pace per tutto il genere umano, al quale è rivolto il messaggio di speranza che ci viene dalla celebrazione annuale della solennità della Pentecoste.
Di questi frutti ha bisogno il mondo intero. La Pentecoste è l'inizio della Chiesa, ma anche l'inizio di un nuovo mondo. Ebbene, anche in questo inizio di millennio il mondo sta alle porte in attesa di una nuova Pentecoste. Lo Spirito Santo, come quel giorno di Pentecoste, è effuso anche su di noi perché usciamo dalle nostre grettezze e dalle nostre chiusure e comunichiamo al mondo l'amore del Signore. Anche a noi sono dati in dono la "lingua" del Vangelo e il "fuoco" dello Spirito, perché mentre comunichiamo il Vangelo al mondo scaldiamo il cuore dei popoli avvicinandolo al Signore.
Lo Spirito Santo è donato a noi e non smette di operare in ciascuno di noi. Lo Spirito Santo, che è amore, ci spinge all’esercizio di tutte le virtù per farci giungere alla completezza dell’amore cioè alla santità. Lasciamoci guidare all’amore dallo Spirito Santo affinché tutti gli uomini, attraverso la nostra testimonianza, riconoscono Gesù come il cristo, il Figlio di Dio, e abbiano la vita nel suo nome.
Essendo guidati dallo Spirito siamo figli di Dio, Liberi coraggiosi. Nel Nostro cammino spirituale con ci lasciamo fermare da un nessun ostacolo, andiamo sempre avanti, con un progresso continuo di fede, speranza e carità. Tutto questo viene concesso a ogni cristiano. Ma occorre essere docili allo spirito, occorre meditare, con il suo aiuto la parola di Dio e occorre essere docili allo Spirito anche nella vita concreta, nella vita di servizio e di dedizione a Dio e ai fratelli.

Don Matteo


UNA GIORNATA DI GESU'
Omelia dell'8 febbraio 2009

La Parola di Dio di questa quinta domenica del tempo ordinario ci presenta Gesù alle prese con la sofferenza ed il dolore umano, nei confronti dei quali si mostra sensibile ed interviene con le sue, unicamente sue, straordinarie possibilità per sollevarli. La guarigione della suocera di Pietro, ma anche di tanti altri malati che si presentavano a Lui, ci conferma questa speciale attenzione di Gesù nei confronti della sofferenza umana. Il testo del Vangelo di Marco che letto oggi ci presenta appunto Gesù Cristo che passa di villaggio in villaggio non solo per predicare, ma anche per guarire. Segno evidente che evangelizzazione e promozione umana camminano insieme nel progetto messianico e ad esse bisogna ispirarsi anche oggi. Non solo annuncio, catechesi e prediche, ma azione, condivisione, prendersi cura delle afflizioni degli altri e nei limiti delle possibilità di ciascuno dare il nostro contributo per risollevare dalla miseria materiale, morale e spirituale e dai dolori di ogni genere qualsiasi fratello. E ciò senza fare distinzione di razza, colore di pelle, cultura e religione. La carità non ha barriere e l'amore verso i fratelli non guarda la tessera di appartenenza. Il testo evangelico oggi ci fa riflettere sullo stile di Cristo per venire incontro ai bisogni delle persone che soffrono.
Esso mette in evidenza il fatto che tutti cercavano Gesù. Sicuramente il contesto ci fa pensare ad una ricerca mirata e per motivi ben precisi: quelli della guarigione fisica. Gesù non viene meno a queste richieste, anche se chiede in cambio una risposta di fede. Ad ogni guarigione infatti, quando tutto è completato, dice infatti "la tua fede ti ha salvato". La fede fa miracoli anche nelle guarigioni che chiediamo per noi e per gli altri, specie oggi di fronte a mali terribili ed incurabili, che fanno soffrire in modo tremendo, bambini, giovani, adulti ed anziani o più semplicemente persone innocenti. Il mistero del dolore si comprende alla luce del mistero della Croce di Gesù. Lo ricordiamo nella preghiera iniziale di questa eucaristia domenicale: "O Dio, che nel tuo amore di Padre ti accosti alla sofferenza di tutti gli uomini e li unisci alla Pasqua del tuo Figlio, rendici puri e forti nelle prove, perché sull'esempio di Cristo impariamo a condividere con i fratelli il mistero del dolore, illuminati dalla speranza che ci salva". Esempio di vita in questo senso è anche la figura di Giobbe, che la liturgia della parola oggi ci presenta Il suo pensare e sentire lo troviamo sintetizzato in questo testo: "Non ha forse un duro lavoro l'uomo sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d'un mercenario? I miei giorni sono stati più veloci d'una spola, sono finiti senza speranza. Ricordati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene". Esempio di sopportazione nella prova e modello di santa pazienza, tanto da essere preso ad esempio nell'esercizio di questa virtù umana e cristiana, Giobbe ci rammenta la necessità di guardare la sofferenza e la prova nell'orizzonte dell'eternità. Anche le più grandi pene termineranno, perché la morte solleverà dal dolore ogni essere vivente. Quelle notti di dolore che toccarono a Giobbe, toccano tante volte anche a noi. Notti insonni per problemi fisici, morali, interiori. Ma ogni notte prepara al nuovo giorno. E così con la speranza nel cuore che il domani sarà migliore si accetta con coraggio ogni prova della vita.
La giornata di Gesù era operosa "al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava. Gesù è impegnato in un'attività incessante, ma sa anche prendersi il tempo per stare con Dio nel silenzio e nel raccoglimento. Non è una fuga dal mondo per godersi un po' di tranquillità, ma è il bisogno di "perdersi" tra le braccia di suo Padre abbandonandosi al colloquio filiale con Lui. "Pregava": il tempo del verbo (imperfetto) indica un'azione prolungata. Gesù ha tanto da fare, ma per Lui la prima cosa da fare è la preghiera. E' qui che con suo Padre rivede il proprio programma e comprende che non può legarsi a nessun luogo né lasciarsi cat-turare dalla gente di Cafarnao, che lo cerca per i vantaggi che ne riceve. Nella preghiera Gesù trova la luce e la forza per riscegliere il primato della missione. La preghiera è come luce che illumina il tempo, il nostro tempo: la vita con le sue inevitabili zone d'ombra e, di essa, feconda e rende chiari anche gli spazi aridi, le solitudini dolorose, radicandovi la presenza di Dio, che, solo, può risanare e dar gioia anche nell'afflizione più amara.
In Cristo si manifesta tutta la compassione di Dio per l’umanità. Egli si pone al nostro fianco in tutte le nostre sofferenze, tanto che possiamo dire con certezza che non c’e sofferenza umana che non sia condivisa da Dio. Se andiamo da Dio con le nostre ferite, se accettiamo di lasciarci prendere per mano da lui, sperimentiamo in noi una trasformazione , un processo di risanamento che va oltre la salute del corpo e fa della nostra vita un rendimento di grazie e un annuncio gioioso del suo amore. Essere davvero guariti, infatti, è appartenere completamente a Dio e consacrarsi totalmente al servizio dei fratelli, senza riserve. Illuminata dalla fede nessuna sofferenza è inutile ma è una preziosa e privilegiata partecipazione alla missione stessa di Cristo per la salvezza e la santificazione del mondo.

Don Matteo


AI CARI NOSTRI GIOVANI DEL TERZO MILLENNIO
E A TUTTI VOI FRATELLI DAL GIOVANE CUORE

Scrivo a voi, figlioli, perché vi sono stati rimessi i peccati in virtù del Suo nome! Scrivo a voi giovani,perché avete vinto il maligno”. ( Giov. “, 12-14)
Quando dici figlioli dici bambini,ragazzi,giovani e… gente di ogni età, perché poi nella sfera fisica,con il passare degli anni la paternità umana ha diversi gradi, a poco a poco essa sfuma nella fraternità e infine, nella vecchiaia si fa quasi figliolanza perché sono i figli a prendersi cura dei genitori come ricorda il libro del Siracide:- “Figlio soccorri tuo padre nella vecchiaia… (3,12). Dire bambino, giovane… è come dire: gioia, giovinezza,bellezza, primavera! Essi sono veramente i profeti dell’innocenza dell’armonia ,della felicità, veri araldi di un mondo nuovo e... tutti vorremmo essere così…Sei miliardi di figli vestiti di speranza muniti di lampade accese avanzano verso la Casa dell’unico PADRE! Perduta la vita, ritrovati i valori abbracciano, figli e fratelli, il terzo millennio avvolto di luce e di pace e adorano il Salvatore. A ciascuno di noi Gesù dice: “Lasciate che i piccoli vengano a me… di essi è il regno dei cieli …” e annuncia grandi guai a chi scandalizza uno di questi piccoli!
E che diremo? Il nostro mondo e pieno di queste miserie ed ecco cos’è che guasta le feste:- il peccato! Un filosofo persiano scrisse:- “Quando nacqui trovai una coppa la bevvi e in fondo trovai la perla della gioventù. La giovinezza mi offrì una coppa scintillante, la vuotai e trovai il rubino dell’amore. L’amore mi diede un’altra coppa, la bevvi e in fondo trovai il diamante del dolore. Anche il dolore mi offrì una coppa, bevvi disperato fino all’ultima goccia! Gioia suprema!… Vi TROVAi DIO!! “Ecco il progetto del PADRE BUONO che crea i suoi capolavori e li custodisce.
Li segue, li ama appassionatamente:“Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza…” (Gen.1,26) e così avvenne. Ce lo dice bene anche Trilussa in una sua buffa poesia:

Iddio pijò la fanga dar pantano,
formò un pupazzo e je soffiò sur viso
Er pupazzo se mosse a l’improviso
E venne fora subito er cristiano
Ch’aperse l’occhi e se trovò ner monno
Com’uno che se sveja da un gran sonno.
Quello che vedi è tuo-je disse Iddio
E lo potrai sfruttà come te pare:
te do tutta la terra e tutto er mare
meno ch’er Celo,perché quello è mio!
Peccato disse Adamo.E’ tanto bello…
Perché num m’arigali puro quello?

Ecco dunque questo gigante della terra che se anche è alto solo un palmo incarna la virtù di Dio come Dio incarnerà la debolezza dell’uomo ingannato dall’angelo ribelle.Satana sì, voleva che il Cielo non fosse mio, povero diavolo tentatore ma non sapevi che DIO è AMORE? E… noi siamo nati per cantare la Sua gloria! E… il cantore, dice Sant’Agostino, diventa ,egli stesso lode del suo canto. Ed è solo il sapersi amati e ritenuti importanti da Colui che ci conosce fino in fondo che scioglie il nostro canto di festa. Sant’Ireneo dice che: “ L’uomo che vive è la gloria di Dio” Sono la Fede, la Speranza, la Carità e la preghiera che ci rendono vivi e felici. che ci fanno vivere nel nostro “Già” il “ NON ANCORA” dell’eternità! Sì, l’uomo che vive è la gloria di Dio, è una PREGHIERA VIVENTE che ama l’AMORE, respira l’eterna Sua vita, ringrazia, confida, ripara, intercede! Rimane beato e smarrito nel Suo VERBO POTENTE E INFINITO qui in terra e nel Cielo ove Dio è la gloria dell’uomo!…
Resto con voi figli .fratelli e padri. Insieme adoriamo e ringraziamo il DIO-AMORE e con la Vergine Madre cantiamo:- “MAGNICAT”… Si faccia di me secondo la Tua PAROLA!
Saluto tutti e ciascuno di voi con l’antico, gioioso augurio pasquale:“Gioia mia il Signore è veramente risorto!” Amen, Alleluia!!

Suor Maria Bernarda Monfelli Benedettina di MONTEFIOLO

 


Per tutti quelli che credono che le utopie siano strade percorribili
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MOTI URBANI STAZIONIMPOSSIBILI

Domenica 27 dicembre alle ore 18.00 a Palazzo Nicotera (Piazza Tommaso Campanella), a Lamezia Terme in provincia di Catanzaro, sarà presentato il catalogo della mostra “Moti urbani Stazioni impossibili”, edito dalla prestigiosa casa editrice Silvana Editoriale e curato da Caterina Misuraca e Carlo Carlei. Si tratta di centodieci pagine a colori per un design ricercato con una nota critica di Alberto Fiz direttore del Marca (Museo delle Arti di Catanzaro). La manifestazione, che si è tenuta dal 6 al 20 giugno scorsi, ha coinvolto centinaia di artisti e architetti italiani e non per un totale di ben 71 opere, tutte catalogate nel prestigioso volume (patrocinato dalla Regione Calabria, Provincia di Catanzaro, Comune di Lamezia Terme e Ordine degli Architetti di Catanzaro) che sarà distribuito in tutta Europa nei più importanti musei, librerie, book shop di gallerie. Moti Urbani StazionImpossibili rappresenta il secondo grande evento di successo ideato dall’Associazione culturale 400KC, che dal 2007 promuove la manifestazione divenuta ormai un punto d’eccellenza per l’arte contemporanea e l’architettura italiana: OggettInstabili che si conferma anche attraverso la partecipazione di grandi nomi a confronto con giovani emergenti italiani e non, un insolito e importante laboratorio di ricerca sul contemporaneo. Ricordiamo che il primo appuntamento accese i riflettori sul Pontile ex Sir, costruito negli anni Settanta, mai messo in funzione e ad oggi simbolo di un eclatante fallimento industriale. Questa volta attenzione puntata ad un’altra questione urbanistica: la mobilità. Attraverso l’analisi delle quattro stazioni urbane di Lamezia. Da qui la città fotografata nel suo “immobilismo” e un intento culturalmente bellicoso: “Moti Urbani StazionImpossibili”. Quattro stazioni urbane degradate simbolo di un “movimento fermo” e l’arte per tracciare binari senza confini, per andare oltre la contingenza del visibile, per disegnare rotte mutanti, impossibili. Un libro straordinario, da non perdere per chi ama l’arte, l’architettura, il design … e per tutti quelli che credono che le utopie siano strade percorribili. Avendo visitato con molta attenzione la mostra in questione, posso affermare che è stato un modo di riflettere sulla città e di vederla con occhi nuovi…e più creativi! Vi consiglio pertanto di regalare in occasione del Santo Natale questo libro a chi ama l’arte, l’architettura, il desing e a chi ancora non li ama per imparare a farlo.

Fausta Genziana Le Piane