Leonardo
Sciascia propose un termine per parlare della concomitanza tra l’ambiente
e il carattere siciliano: sicilitudine, come aveva fatto a suo tempo il
poeta Senghor con negritudine. Io amo di più parlare di profumo
di Sicilia e quando sento questo profumo sento la gioia di vivere come
non mai, e se questo profumo porta con se quello inconfondibile del mare,
del suo mare, questa diventa più intensa. E se poi sono dei versi
a ripropormelo questa diventa festosa. Ciò mi si è riproposto
leggendo le poesie di Risica. Non desidero soffermarmi su un’analisi
critica dei versi del poeta, altri lo hanno fatto in maniera più
qualificata di me. Voglio solo aggiungere una breve considerazione. Quei
versi che cantano il mare, elemento associato al mio sentire di uomo sono
versi a tutto tondo di questa meravigliosa effettività, corposi,
incisivi, che richiedono un animo garbato che sappia interpretarla e restituirle
tutte le sfumature su uno sfondo poetico energico e dai toni più
vari e meravigliosi e questo Risica lo fa in maniera degna di un autentico
cantore: Ulisse gabbiani spiagge d’inverno pescatori falò
stella polare gocce di sole arenile.
Quel che mi auguro è perciò auguro a Risica che ci possa
ancora concedere la gioia di poter leggere i suoi versi, riaverlo ancora
qui a Roma con noi, perché è davvero raro che in questa
raccapricciante congiuntura dei nostri tempi, si possano ancora coltivare
queste amicizie e questi interessi.
Concludo dicendo che mi sento fra coloro ai quali Risica ha dedicato il
libro: io porto il Mare dentro di me e non smetto di ascoltarne il richiamo.
Alberto
La Chimia
le pitture di
AGNESE DI VENANZIO
Affreschi
e disegni di LUIGI COLLETTI
ADRIANA CENTI
Il borgo
Paesaggio
Le
torri di Ascoli Piceno (olio su tela)
GIUSEPPE
SMIRNE
Volto
di donna
VINCENZO
LA CHIMIA
Autoritratto
Ritratto
del pittore Pasquale Riga
Agnese
Di Venanzio
BELLA
Bella,
quale vento sferzava i tuoi capelli?
Forse quello del domani
del tempo imprevisto e
dinanzi a te sbigottita
le lancette dell'orologio
improvvisamente
hanno battuto un altro ritmo
un'altra ora.
Fino
ad oggi.
Fausta
Genziana Le Piane
LUCA
POLICASTRI
vincitore
del Premio Franco Costabile 2009:
Passi nella solitudine
FEDERICO
SMIRNE
Rose
a Bianchi (Calabria)
Biamchi...
bianca per la neve!
STELLE
MARINE
Scivolare
contro una casa di periferia
sotto un murale d'amore,
scritto
con un pennarello rosso,
inarcare la schiena
ed aprire i pugni.
Un'onda verrà
e lascerà sul palmo bagnato
stelle marine
da appuntare
come spille
siul bolero della notte.
Fausta
Genziana Le Piane
---
--- --- QUALCOSA DI STRANO Adriana Centi
In
ripida scesa
scroscia la pioggia,
il fiume muggisce e s’ingrossa,
furioso il vento
foglie e rami all’albero strappa,
cade il nido non c’è più difesa;
nel turbinio
impaurite le case si tengono strette
e mille e mille voci a dire:
qualcosa, qualcosa di strano
nell’aria serpeggia.
DISPERAZIONE
Adriana Centi
Per
te cos’è rimasto?
Al tuo dolente passo
la strada non s’accorcia
e quel carro sgangherato
lo raggiungi quando è fermo.
Per te cos’è rimasto!
Solo vuoti sacchi,
nemmeno un chicco di riso
disperazione sì
e fame, fame che toglie il senno
mani sempre vuote
tese a mendicare
quello che non c’è
e il cuore, il cuore stanco cede.
Dio, mio Dio che pena!
MADRE
Adriana Centi
Su
diafano volto
morbide ciglia
celano spente pupille.
Tacito il livido labbro
e le tue belle mani,
prive del gesto,
stanno chete
su immoto petto,
in pace.
O madre,
mai più sul mio capo
la tua tenera carezza.
VORREI Adriana Centi
Poesie, 1994-1997, Nuova Impronta Edizioni, 1998
Vorrei
la tua presenza
riascoltare la voce dell’innocenza
e cieli sereni
un vento benigno
che porti via gli affanni
per piedi nudi
accendere il camino
e perdonare Caino
---
--- ---
FRAMMENTO Franco
Costabile, 1946 – da “La via”, inedita
Sopra
al cuore della città che dorme
Un cielo di vetro ed una luna
Accesa come a luce d’olio.
L’anima s’è assopita
Fra due nubi di cenere immobili
Leggera stupita.
---
--- ---
QUESTO E' POESIA Italo Evangelisti
La luna storta, TerreSommerse, 2007
Sento
movimenti di truppa
nelle retrovie
delle viscere e del sesso
Sento
strazianti adesso
le sodomie degli affetti
gli zoccoli dei barbari
arroganti
calpestare la terra
indifferenti
alle morìe di insetti e radici
al sudore delle orchidee
in serra
Questo
è poesia
radicare un verso dentro
poi mettere il viva voce e via
aspettare
se come una freccia fa centro
vedere se brilla
come un’unghia laccata
se manda un profumo
se è una voce che strilla
da fermare per strada
chi passa ed ascolta
o se nessuno si volta.
---
--- --- QUANDO LE PAROLE
Maria Pia Sozzi
Complice il silenzio, Pagine, 2006
Quando
le parole
Si perderanno
Nel fiume della vita,
tu
pescatore di versi,
getta la rete…
lancerò manciate di sale
farò del fiume oceano…
la tua rete
sarà leggìo
--- --- ---
SINE TITULO di
Letizia Lanza
Cavalli
Fuga
di zoccoli
tra fluttue criniere.
Calida possanza sbrigliata
per generosità di muscoli.
Corrusco essudare.
Furia
et concitatio
in attimi sconvolti
vivipulsanti.
Umidío
vago di
froge –
a sacra pretesa
d'amore.
Gea
Fonte
assetata:
rus arido-pioggia.
Tormento
esausto di
natura ignuda.
Viva-vita
Felicitas
vivendi –
ineffabile licor.
Favole
arcano-magiche
in tragico ventre.
Aves
Zigzagare
di pioggia –
fremire d’ali.
Ricerca
tremida di
cibo in
pena-impegno di vita.
Cat
Felicità
materica in molle
attorciglio di coda.
Cogente
felinità
– a contatto.
Amico
Riverbero
d’immenso
sul morbido muso.
Cauda
dimenante
a festa.
Indicibile
cuore.
Letizia
Lanza
--- --- ---
UN LABIRINTO INCISO IN LINEARE B a
Letizia Lanza
Sigillo
interno, da sempre nasce con noi
ci segue ci segna
come
nel gioco a riquadri quando
disegnavamo in terra una campana-vita
percorsa a balzi, intrico che si dipana
bambine-ariadne attente a non calpestare i limiti
mentre ostinati i piedi battevano
sulle sbarre del mondo
gli arresti smarriti, i ritorni a sperare
Un
labirinto in sinuosa traccia danzante
che di continuo inverte il moto
in ricordo dello sperdimento scuro
della vinta biforme creatura
( grandiosità di un mito necessaria
a dissolvere ogm-chimere)
Ci
salva la donna dei gomitoli
Signora del Labirinto
con le sette stanze dello stupore
nella sua cavità delle nascite
offrirle un vaso ebbro di miele
un grazie danzato legati a un filo
quel
filo desiderato nel buio dei meandri
dolce s’avvolge si svolge irresistibile
è lo scialle agitato nella danza del ragno
(anche aracne annodava un labirinto-tela)
Il
dedalo visibile dall’alto? Un tradimento
a cielo aperto, se verso il cielo
sul mare d’icaro si levano
le nostre incerte ali
Annamaria
Ferramosca
XIX di Michele Pane
Bella,
me misi a scrivere ‘u tue nume
E nun sugnu resciutu, anima mia,
cà la pinna era china de dulure,
‘u calamaru de malinconia,
e lu ‘nchiostru era acitu forte forte.
Bella, sì nata ppe’ me dare ‘a morte!
Michele
Pane
Le Poesie, Rubbettino Editore, 1987
EROS E CARITA'
di Alberto La Chimia
L’amore
cristiano non è l’eros della cultura ellenistica, non ha
quel significato che gli diedero i greci. L’amore cristiano porta
un altro nome: agàpe ( S. Paolo – Corinzi XIII ), caritas.
E cosa è per noi cristiani la carità se non l’amore
che proviamo verso Dio, l’amore che proviamo verso gli uomini per
amore di Dio.
Esso è superiore a tutte le altre virtù umane. Non c’è
sulla al di sopra di agàpe, ne NE la profezia della tradizione
ebraica, né l’ineffabile lingua degli angeli che i Corinzi
credevano d’intonare nell’estasi; nemmeno la speranza, nemmeno
la conoscenza la quale in questo mondo è così misera perché
conosciamo Dio confusamente come attraverso uno specchio, dentro “enigmi”.
La carità, l’amore, è persino superiore alla fede
dice S. Paolo. Cristo aveva detto:“... se avrete fede quanto un
granello di senape potete dire a questo monte: “Spostati da qui
a qui” ed esso si sposterà“. Ma S. Paolo va oltre con
uno straordinario capovolgimento:“Se avessi tutta la fede, tanta
da poter trasportare tutti i monti, ma non avessi l’amore, non sarei
nulla; sarei un bronzo che risuona e un cembalo che squilla“. Tutte
queste virtù: profezia, dono della lingua, speranza, conoscenza,
fede avevano secondo Paolo una deficienza in comune. Erano virtù
di questo mondo. Alla fine dei tempi, quando con un tocco leggerissimo
della mano Dio aprirà le porte del Suo Regno, tutti questi doni
verranno meno. Nel nostro mondo intermediario agàpe è l’unica
virtù perfetta, piena e assoluta come sarà perfetta alla
fine dei tempi la nostra visione della luce di Dio. Non dobbiamo attendere
e rinviare l’attesa. Nell’amore tutto è già
qui: Dio è già dentro di noi. Lo incontriamo nell’amore,
E se l’amore è il presente assoluto è anche l’assoluto
futuro...
Alla fine dei tempi, quando si spalancheranno le porte del regno, la speranza
e la fede si compiranno e dunque verranno meno, non ci sarà più
virtù umana. Ci sarà soltanto l’amore. Nel vuoto della
fine che in quel momento si scioglierà nella visione piena e radiosa
del volto di Dio, vedremo a viso a viso. Giovanni dice: “Dio è
amore, chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui.“
Attorno alla metà del XII secolo, nell’abbazia di S. Vittore
a Parigi, ci fu un gruppo di monaci (Ugo e Riccardo di S. Vittore, Guglielmo
di Terry, Frate Ivo) che scrissero dei bellissimi trattati sull’amore
divino. Che l’amore terreno e quello divino, eros e caritas, discendevano
dalla stessa fonte, era una convinzione diffusa tra questi maestri di
spiritualità.
Erano impressi nella loro mente alcuni versi del “Cantico dei Cantici“:
forte come la morte è l’amore, dura come l’inferno
la passione, le sue torce sono torce di fuoco “Eros e caritas si
fusero completamente in questi loro scritti. Riccardo di S.Vittore nel
suo“ I quattro gradi dell’amore violento – Profondo
come l’abisso è l’amore “descrisse i due amori
e vi ritrovò la stessa struttura, le stesse manifestazioni, i medesimi
gradi: l’amore che ferisce, che lega, che rende languidi, che fa
venire meno. Aveva letto S. Paolo. Ma S. Paolo sottolineava la sobrietà,
la misura, la quiete, la mitezza di questa forza che “ tutto sopporta
e ci conduce al futuro“. Riccardo di S. Vittore invece sottolineava
la violenza, la veemenza dell’amore. Ecco le sue parole:“Sopra
i sentimenti di umanità, di amicizia, di parentela e fraternità
c’è quello amore ardente e impetuoso, che penetra nel cuor
e infiamma i sentimenti e trapassa la stessa anima fino alle midolla.“
Partendo dalla frase di Giovanni:“Dio è amore, chi sta nell’amore
dimora in Dio e Dio dimora in lui.” Ecco che cosa scrive Frate Ivo
nel suo“ L’Amore non ha mai fine “: l’Amore è
addirittura superiore a Dio! Ecco cosa dice questo sconosciuto frate:
“ Così davvero parlando di Dio, d’amore, l’anima
non si sazia, perché Dio è amore e amarlo è amare
l’amore, Amare l’amore, il cerchio si chiude e l’amore
non ha più fine... vedi dunque in quale modo è insuperabile
la carità che tutto supera, è così insaziabile che
tutto divora, nessuno in futuro potrà saziarsi della dolcezza del
divino amore, nessuno esserne ripieno nel presente. E’ di questa
impossibilità ti sia di conforto il non avere conforto.“
Alberto
La Chimia
Ernestina
Fracassi
Per
la Tua infamante croce, Signore,
per la Tua resurrezione gloriosa,
fummo figli tuoi redenti, in eterno,
ed in eterno salvati dal Tuo amore
e dalla Tua misericordia.
A Te sia lode e gloria fino alla fine dei tempi.
Vivere il mistero del Natale
Abbiamo
vissuto l’Avvento come un tempo forte di tensione verso il Natale.
Se volessimo vedere in questa tensione un aspetto esclusivamente esistenziale,
potremmo cogliere nelle invocazioni di questo tempo liturgico un anelito
che è da sempre nell’uomo, un’aspirazione alla felicità,
ad uno stato cioè di appagamento totale ed assoluto del proprio
essere. Ciò è stato inteso anche come una nostalgia latente
nel profondo dell’uomo, la nostalgia di un paradiso perduto. La
questione è che molto spesso non si sa precisamente in che cosa
consista questa felicità e per quali strade raggiungerla.
Il limitato orizzonte umano si rischiara e si allarga davanti a chi vive
nella dimensione di una fede che va oltre i limiti del sentire dell’uomo
e dei suoi chiusi sistemi di pensiero. Un cristiano che crede fermamente
in un Dio che è Padre e che lo ama immensamente, sa con certezza
chi è colui in cui crede, sa che la sua speranza di una felicità
promessa da un Dio fedele non sarà delusa, conosce la via sicura
per raggiungerla perché lo stesso Padre gliela indica, ha la possibilità
di pregustarla in una vita di fede chiara e sicura e di abbandono fiducioso
in Dio. Per questo oggi trova profonda eco nel cuore di chi fermamente
crede l’annuncio che l’Angelo rivolge a tutti gli uomini :
“Vi annuncio una gioia grande: oggi è nato per voi il salvatore,
che è il Cristo Signore “ (Lc 2,10). Oggi chi ha fede fa
l’esperienza di una gioia profonda, essenziale, mentre il chiarore
di una grande verità invade il suo cuore: si tratta di un’esperienza
tutta interiore che non è frutto di ragionamenti o di ricerche
filosofiche o teologiche, ma che gli giunge attraverso quelle che Pascal
chiamava “le vie del cuore”, è quella gioia, dono dello
Spirito, che fa pregustare la felicità promessa.
Se m’indugio a parlare della fede è anche perché in
questo giorno di Natale noi ci troviamo davanti ad una sproporzione enorme
tra la grandezza dell’annuncio e l’esiguità del “segno”
dato ai pastori:” un bambino avvolto in fasce e giacente in una
mangiatoia” (Lc2,12), e ciò implica un’adesione di
fede! I pastori, gente molto semplice, non discutono, non dubitano. Sentono
che qualcosa di grande che supera ogni intendimento umano sta succedendo,
sanno che Dio è più grande degli uomini, al di là
di ogni aspettativa umana è un Dio che stupisce, che riserva delle
sorprese. E noi oggi ci allineiamo a coloro che in quella notte santa
andarono ad adorare quel Bimbo giacente nella mangiatoia. E’ la
nostra fede cristiana: nelle piccole cose si rivelano le grandi, nelle
semplicissime esperienze della fragilità e povertà umana
è il mistero della presenza di Dio. La fede opera meraviglie, fa
che lo spessore della materia diventi trasparenza e il tempo e lo spazio
svaniscano. E’ così che contemplando questo Bambino nella
mangiatoia ci accorgiamo che la bellezza del suo volto è trasparenza
di una divina bellezza interiore: egli porta dentro di sé un mistero,
il mistero dell’immenso amore di Dio per noi, di un Dio che si annienta,
si fa carne per divinizzare la carne, assume la natura umana per farci
partecipi della natura divina!
Ma mentre contempliamo la serena e ridente bellezza di questo Bambino,
vediamo delinearsi sullo sfondo la Croce! “Venuto nella carne”
(1Gv 4,2; 2Gv 2,7) vuol dire venuto nella realtà terrestre fragile,effimera,
distinta dal mondo celeste e spirituale, vuol dire accettare di nascere,
crescere e morire, partecipare a tutto ciò che la condizione umana
comporta nella sua storia. Questo “farsi carne” vuol dire
anche passare attraverso la morte e la morte di croce. Non avrebbe senso
parlare dell’Incarnazione senza parlare della Croce: i due eventi
sono un unico mistero, il mistero di Cristo, di cui l’Incarnazione
è il punto di partenza. Col natale di Cristo nasce l’uomo
nuovo, perché l’amore del Padre non si limita a rimettere
l’uomo nello stato del primo Adamo, non fa il restauro di una vecchia
immagine sbiadita e deturpata, ma lo adotta come figlio, lo fa suo figlio
in Cristo. Da ora in poi, poiché il Verbo si è fatto carne,
deve portare Cristo dentro di sé, deve viverlo nella sua carne,,
perché lo Spirito di Cristo è in lui. Deve essere un figlio
di Dio che rispecchia il volto di Cristo e lo manifesta agli altri, non
per una insignificante imitazione esteriore, ma perché Cristo vive
in lui; questa nuova vita interiore si manifesta nel suo modo di essere,
lo modella facendogli assimilare gesti e parole della persona amata, il
messaggio di umiltà e di povertà, di mitezza, di perdono
e di pace che promana dalla grotta di Betlemme. Chi è l’uomo?
Che senso ha vivere? Questi interrogativi hanno attraversato la storia
del pensiero umano. “Cristo, rivelando il mistero del Padre e del
suo amore, svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa conoscere
la sua altissima vocazione.” (GS 22). L’uomo è figlio
di Dio in Cristo! Questo è l’uomo, questa è la sua
identità. Quale promozione umana, quale più grande auto-realizzazione
per l’uomo? Qui egli trova la sua integrità, la pienezza
della sua vita, il senso del suo vivere. Natale è epifania di Dio
in Cristo suo Figlio e in Cristo è epifania dell’uomo. C’è
in questa, come in tutte le epifanie, un aspetto fascinoso e tremendo.
Ci affascina, ci stupisce, ci riempie di meraviglia sempre nuova, di immensa
gratitudine, l’amore immenso di Dio, ma ci fa tremare la risposta
che l’uomo deve dare. Nell’ascoltare Dio che lo chiama suo
figlio, l’uomo dovrebbe rimanere senza parola, balbettare, come
è avvenuto spesso nella storia delle grandi vocazioni. “Riconosci,
cristiano, la tua dignità!”. Ogni volta che a Natale risuona
nella Chiesa questo solenne richiamo di Leone XIII, non si può
rimanere indifferenti: la possente voce di questo grande Papa ci scuote,
ci richiama ad una sempre maggiore consapevolezza e responsabilità.
Essere figli di Dio significa vivere il Cristo, vivere come membra del
suo corpo che è la Chiesa, significa essere in comunione fraterna
con gli altri figli dello stesso Padre, significa essere operatori di
quella pace annunziata dal coro degli Angeli nella notte di Natale: non
una pace fraintesa o malintesa, non una pace falsa, finalizzata al benessere
di pochi fatta di compromessi per egoistici motivi d’interesse,
non relativa, intesa come non-guerra, ma una pace assoluta, fatta di un
armonioso rapporto dell’uomo con Dio, con se stesso, con gli altri,
con la natura. Il mistero del Natale è anche mistero di rinnovamento
del cosmo con la reintegrazione dell’universo nel disegno del Padre.
L’Incarnazione è come la forza incentivante di un comune
cammino universale verso un unico punto, Cristo, che ricapitolerà
in sé tutte le cose “quelle del cielo e quelle della terra”
(Ef 1,10). E in questo cammino l’uomo,figlio di Dio, deve collaborare
col Padre con quella vera fede capace di muovere le montagne, con quella
fede operante che incarna l’amore del Padre. Se l’uomo risponde
alla sua alta vocazione trova quella felicità che cerca mentre
per la sua fede il mistero del Natale continua ad attraversare la storia.
“Beati voi che avete udito e creduto: ogni anima che crede concepisce
e genera il Verbo di Dio! ( S.Ambrogio, Commento su S.Luca)
Suor
Beatrice
Un
tempo favorevole: spiritualità dell’Avvento
Mi
sembra fondamentale per il nostro argomento evidenziare il significato
essenziale presente in tutti i tempi liturgici, cioè il mistero
di Cristo.
Il mistero di Cristo è il piano salvifico che Dio attua nel tempo,
dalla creazione del mondo alla morte-risurrezione di Cristo, e che avrà
la sua piena attuazione nella parusia finale, quando “Dio sarà
tutto in tutti” (1 Cor 15,28b”. Ogni momento di questo piano
include il momento successivo, è come un germe che contiene potenzialmente
il tutto, ed il centro di questo tutto è l’evento pasquale.
E’ un disegno divino che si dispiega lungo tutto l’arco della
storia umana, quindi ogni anno il mistero di Cristo torna ad essere celebrato,
non come una ripetizione vuota e sterile, ma come una crescita, un ulteriore
passo verso la manifestazione gloriosa del Signore. E’ la storia
della salvezza che continua e che per opera dello Spirito Santo si attua
in noi. I cosiddetti tempi forti sottolineando marcatamente, ognuno sotto
il suo specifico aspetto, ilsignificato pasquale presente in tutto l’anno
liturgico, ci fanno vivere l’amore di Dio per noi in Cristo, comunicandocelo
nella liturgia propria del tempo.
Anche quest’anno l’Avvento ritorna per porgerci una nuova
occasione di salvezza e di ulteriore crescita, un tempo favorevole da
non perdere, da non lasciare scorrere invano. Tenere presente il suo significato
pasquale, immergerci in esso per parteciparvi con piena disponibilità
di cuore, ci aiuterà a rettificare l’aspetto parziale delle
cosiddette “devozioni” in cui prevale per lo più il
sentimentalismo ed il moralismo, facendoci dimenticare o trascurare l’essenziale.
Le quattro settimane dell’Avvento sono una preparazione alla triplice
venuta del Salvatore:venuta nella storia in Gesù di Nazareth, nel
quale si rivela il volto del Padre, celebrata nella liturgia; venuta nel
suo Santo Spirito nei vari momenti della nostra esistenza; venuta gloriosa
di Cristo alla fine dei tempi. L’Avvento è tutto caratterizzato
da questa tensione, da questo aspettare che il Signore ritorni manifestandosi
pienamente nella gloria. “Ora lo vediamo come in uno specchio, ma
verrà il giorno in cui lo vedremo faccia a faccia” (1 Cor
13,12)
La spiritualità dell’avvento è pertanto la spiritualità
dell’attesa, caratterizzata da tutti gli elementi che rendono viva
e palpitante un’attesa.
Si attende con gioia, quasi vivendo in anticipo tutta l’emozione
dell’incontro. L’attesa è sempre sostenuta dalla speranza:
senza speranza non si può attendere; attesa è quasi sinonimo
di speranza. Si attende preparando con tanto amore un ambiente degno di
accogliere chi ritorna, un ambiente pulito, ordinato, adorno delle cose
a lui gradite, pieno di luce, perché egli possa sentirsi subito
a casa sua. In anticipo spalanchiamo le porte, perché egli veda
che tutto è pronto e la piena disponibilità ad accoglierlo.
Colui che attendiamo è il Signore della nostra vita, l’ambiente
da preparare è il nostro cuore che spalanchiamo perché Lui
entri e vi dimori per sempre, la luce che illumina il cuore è lo
Spirito “ per mezzo del quale gridiamo: -Abbà,Padre!- (Rm
8,15b), e supplichiamo:”Vieni! Maranà tha!”(Ap 22,17).
La preparazione del cuore è un movimento di conversione che nei
tempi forti diventa più marcato, quasi una loro caratteristica,
perché in questi tempi attraverso la Parola di Dio e la Liturgia
c’è da parte della Chiesa un forte richiamo ad essa. Ma vorrei
puntualizzare che tutta la vita, fino all’ultimo momento, giorno
dopo giorno, è tempo di conversione: i tempi forti non fanno che
condensare ed evidenziare il senso di tutta la nostra esistenza. La vita
di un cristiano è un dimorare nella conversione:egli sa che la
vita gli è stata donata per accogliere l’amore illimitato
del Padre e ad esso si abbandona, pur riconoscendo la sua miseria, pur
convivendo con essa; sa che egli nulla può senza questo amore davanti
al quale cade ogni autogiustficazione ed ogni illusione di efficientismo,
che deve semplicemente rimanere nella verità,ammettendo umilmente
il suo peccato per aprirsi alla grazia di Dio, pieno di speranza ed abbandono:
come un bambino che consapevole e rammaricato di aver fatto un danno,
si rifugia fra le braccia del padre e gli dice tutto, sicuro che il suo
papà porrà riparo a tutto. In questo Avvento la triplice
venuta di Gesù ci mette in causa: è un tempo favorevole
per aprirci alla grazia di Dio e diventare quel meraviglioso uomo-pasquale
che incessantemente muore in Gesù e risuscita con lui. Ci guiderà
in questo cammino la stella della fede, ci aiuterà la preghiera,
nel silenzio esteriore ed interiore accoglieremo la Parola, che vuole
venire e vivere nel nostro cuore.
La
Liturgia delle Ore (1)
Introduzione.
Vorrei condividere con voi alcune riflessioni su quella parte della preghiera
liturgica chiamata Liturgia delle Ore. Per quanto riguarda la Liturgia
è facile che l’interesse s’incentri sulla celebrazione
eucaristica, e questo si capisce: la morte e risurrezione di Cristo, di
cui propriamente sacramento è l’Eucaristia,costituiscono
l’avvenimento centrale del cristianesimo; l’Eucaristia è
culmine e fonte della preghiera liturgica e della vita cristiana. Anche
con la liturgia sacramentaria abbiamo più facilmente occasione
d’incontrarci: battesimi, prime comunioni, cresime, matrimoni,sacramento
del perdono, sono frequenti occasioni d’incontro nell’ambito
in cui viviamo ed occasioni di riflessione e di catechesi. Ma è
bene approfondire sempre più il significato e l’importanza
della Liturgia delle Ore, che è precisamente quella preghiera che
prolunga durante tutta la giornata l’azione salvifica del sacrificio
di Cristo celebrato nell’Eucaristia. Infatti, se vogliamo ben comprendere
il significato della Liturgia delle Ore, dobbiamo tenere ben fermo che
essa è la preghiera della Chiesa che è unita a Cristo con
la stessa intimità che unisce la sposa allo sposo, il corpo al
suo capo. La Chiesa prega, ma in lei prega lo Spirito di Cristo, che,
proprio per il sacrificio che Cristo ha offerto sulla Croce, è
stato infuso nei nostri cuori; quella vita divina che per noi si è
sprigionata dal Sacrificio di Cristo viene infusa in noi mediante i Sacramenti
che c’inseriscono sempre più in Cristo. Nella Liturgia delle
Ore Cristo continua a rivolgere al Padre, insieme con la Chiesa, la sua
offerta già fatta sulla Croce e la sua preghiera. La Liturgia delle
Ore è irradiazione della celebrazione eucaristica, sgorga da essa,
in essa Cristo continua a pregare con noi durante la giornata. Detto con
parole semplici: se noi avessimo per un istante lo straordinario dono
di vedere con i nostri occhi di carne, non mediante la fede, la realtà
che si nasconde dietro il velo del segno liturgico, noi, durante la recita
del Vespro o di altra Ora liturgica, vedremmo il nostro Signore Gesù
Cristo presiedere in persona la nostra assemblea! E’ il sacramento
del Mistero di Cristo!
Fermiamoci un momento a considerare più da vicino questo mistero
che ogni giorno ci viene offerto di contemplare e di vivere.
La
Liturgia delle Ore (2)
Simbolismo
della luce. Per il nostro tema merita particolare attenzione il simbolismo
della luce, che si accompagna in primo luogo al corso del sole. Il grandioso
fenomeno naturale rappresentato dal cammino del sole
ha sempre impressionato l’uomo. “Dio Sole invincibile –
Sol invictus – “: così lo chiamavano i Latini: con
questo nome veniva onorato soprattutto il Dio Mitra. Nell’antico
Oriente il sole era simbolo di giustizia. Così ce ne parla il Salmo
19, dove la grandiosità del creato celebra la gloria di Dio: “Là
pose una tenda per il sole / che esce come sposo dalla stanza nuziale
/ Esulta come prode che percorre la via. / Egli sorge da un estremo del
cielo / e la sua corsa raggiunge l’altro estremo: / nulla si sottrae
al suo calore” (6.7). Con tremenda maestà il sole dispensa
luce e calore, risveglia la vita e la uccide, dona la luce e rende cieco
l’occhio troppo ardito. Nessuna meraviglia quindi che dapprima gli
orientali e, dopo,anche i popoli del Mediterraneo, vedessero nel sole
la più alta divinità. Fra questi popoli tale modo di pensare
influirà anche sul modo di pregare. La splendida luce del mattino
risveglia vita, gioia ed ardore di lavoro. Perciò per gli antichi
orientali, il punto da cui il sole nasce di venne simbolo del divino,
infatti quando si pregava si stava rivolti verso oriente. Anche i primi
cristiani pregavano rivolti verso oriente, in piedi, le braccia alzate,
gli occhi al cielo: è questa la figura dell’orante che così
spesso incontriamo nelle catacombe. Oltre che il mattino, anche la sera
divenne un momento dedicato alla preghiera, e le fasi intermedie del corso
solare assunsero nel culto una loro importanza.
La Chiesa ed il sole. La Chiesa ha assunto queste concezioni pagane purificandole.
Per la Chiesa non è il globo solare il vero dio, ma esso è
il simbolo della luce e della vita che Cristo è venuto a portare
nel mondo, come lui stesso ha detto: “Io sono la luce del mondo”
(Gv 8,12). In conformità al corso quotidiano del sole, simbolo
del sole spirituale che è Cristo , è l’Ufficio divino
quotidiano ( Opus Dei) che viene chiamato Liturgia delle Ore. Con questo
la Chiesa conferisce nuova bellezza al corso naturale, perché lo
spiritualizza e la natura assurge a simbolo del divino nella preghiera
e nella spiritualità cristiana. E’ bello contemplare la natura
per contemplare la bellezza di Dio; l’uomo è, nel progetto
di Dio,signore della natura, non per distruggerla, ma per coinvolgerla
e farsene voce nella lode a Dio: questo avviene precisamente anche nella
liturgia.
Laus
perennis. C’è un altro punto da sottolineare: quello
della preghiera incessante, di cui abbiamo già parlato in articoli
precedenti. Ricordiamo la parola del Signore in Lc 18,1: “Pregate
sempre senza stancarvi”, esortazione che troviamo spesso nel pensiero
paolino: in 1Ts 5,17 l’Apostolo ci esorta: “Pregate incessantemente”,
ed insiste su questo tema anche nelle altre sue lettere. E’ un’esortazione
che ha esercitato un grande influsso nella spiritualità cristiana.
Come adempie la Chiesa questo comando di pregare sempre, senza sosta?
Anche se è vero che in Cristo suo sposo, con Lui e per Lui, la
Chiesa prega incessantemente, è pur vero che nel culto esterno
l’esortazione a pregare incessantemente non può realizzarsi.
Tuttavia la Chiesa la realizza veramente. Come? Secondo un’antica
concezione, quando un fatto ritorna e si ripete, secondo un ritmo regolare,
sempre uguale, si realizza una specie di eternità terrena. Nelle
catacombe, ad esempio, sono raffigurate le stagioni: esse non sono un
elemento decorativo, ma piuttosto, con il loro corso che sistematicamente
si ripete, con la loro perenne rinascita, sono simbolo d’eternità.
Quindi la Chiesa, pregando ogni giorno, sempre alle stesse determinate
ore, secondo un ritmo regolare sempre uguale a se stesso, realizza la
preghiera incessante raccomandata dal Vangelo e dall’Apostolo. Queste
Ore, poi, seguono il cammino del sole, sempre secondo l’idea che
il sole è simbolo di Cristo. Questa è la Liturgia delle
Ore, la laus perennis, la lode incessante che la Chiesa rivolge a Dio.
La
Liturgia delle Ore (3)
Significato
storico. Oltre ai suddetti significati, le Ore liturgiche hanno un significato
storico perché esse corrispondono ad avvenimenti della vita terrena
di Gesù. L’ora delle Lodi si celebra al sorgere del sole,
che è già un’immagine parlante del Signore che risorge
da morte e che è l’ora in cui realmente avvenne la Risurrezione;
l’ora Terza è l’ora in cui lo Spirito Santo discende
sugli Apostoli riuniti nel Cenacolo; l’ora Sesta corrisponde all’ora
in cui Gesù fu affisso alla Croce, ma è anche, secondo un,antica
tradizione, l’ora della sua ascensione, e quindi il punto meridiano
della sua vita; l’ora Nona ricorda l’ora in cui il Signore
morì sulla croce.
Corso
e struttura. Questa liturgia quotidiana comincia con i Vespri del giorno
precedente, per un motivo molto semplice: il giorno per l’uomo dell’antichità
non cominciava a mezzanotte, momento che si può stabilire in base
alle indicazioni di un mezzo tecnico come l’orologio. Invece il
giorno finiva secondo le indicazioni naturali, cioè col tramonto
del sole, e con ciò stesso cominciava l’altro giorno. L’Ufficio
divino che si celebra verso il tramonto (vesperus,esperia:sera) appartiene
quindi al giorno che sta per finire e tuttavia ci introduce già
al giorno successivo. Per questo motivo il Vespro appartiene almeno in
parte e, nelle ricorrenze più importanti nella sua totalità,
alla celebrazione liturgica assegnata al giorno seguente: ecco perché
il sabato ci sono i primi Vespri della domenica, le cui antifone e letture
ci introducono già nella liturgia domenicale. Così,ad esempio,
i primi Vespri del Natale introducono il nostro spirito nella festa del
giorno seguente. .i nostro spirito giorno seguente seguente . Quando il
sole si avvia al tramonto, la sua luce è più delicata e
si diffonde, con la dolcezza propria di quest’ora, sulla terra stanca
dopo una giornata di lavoro. Il tempo del tramonto è straordinariamente
adatto a risvegliare nel cuore dell’uomo un desiderio di pace, di
armonia, di unità. Gli antichi immaginavano che nelle regioni dell’occidente,
dove il sole s’immerge nel mare,finisse il mondo ed incominciassero
il regno dei morti e le regioni del paradiso. Anche il cristiano pensa
al termine delle fatiche del giorno e ad una luce che non tramonta mai.
S.Ignazio di Antiochia,martire, nella sua Lettera ai Romani, parlando
del tramonto del sole, dice :” Cosa bella è tramontare al
mondo per salire a Dio” Con questo spirito la Chiesa celebra i Vespri.
La
Liturgia delle Ore (4)
Struttura.
Ogni Ora liturgica incomincia con l’inno. C’è in ogni
inno una ricchezza di significato e di sentimenti che inonda l’animo
all’inizio di ogni Ora: subito ci si sente trasportati nel clima
della celebrazione. Basti ricordare l’inno maestoso del Natale “Jesu
Redemptor omnium! – O Cristo, redentore universale !” A quali
altezze ci porta il gregoriano in questi inni! E quanti spunti di meditazione
ci offre l’inno del Vespro di Pasqua, che con tanta dolcezza ed
interiorità sa unire il mistero pasquale all’eucaristia che
ne è propriamente il sacramento ed è il primo cibo dei battezzati!
“Preparati per il pasto dell’Agnello, vestiti di bianche vesti,
col Mar Rosso ormai alle spalle, vogliamo cantare a Cristo, nostro Signore!”:
un’onda di vittoria e di liberazione si sprigiona da quest’inno,
si leva come un mormorio lieve e sommesso dalla tomba dei martiri vittoriosi,
per diventare man mano sempre più forte, sempre più possente,
inno della moltitudine dei credenti di tutti i luoghi, di tutti i tempi,
di un esercito immane che ha come vessillo una Croce!
Nel tempo pasquale seguono altri inni stupendi, come quello dell’Ascensione
tutto pervaso di gioia, d’amore, di speranza e nostalgia, e quello
di Pentecoste che ci fa sentire il soffio dello Spirito, potente come
ali d’aquila e lieve come volo di colomba.
In tutte le ore liturgiche, all’inno seguono i salmi preceduti da
singole antifone che collocano ogni salmo in una luce specifica. I salmi
sono la parte essenziale della Liturgia delle Ore. Essi immergono l’anima
nel mondo della contemplazione; chi potrebbe esprimere con parole tutta
la profondità della preghiera contemplativa dei salmi? Non esiste
alcuna situazione spirituale che non trovi nei salmi la sua espressione:
dal più profondo dolore fino alla gioia della personale esperienza
del divino, dalla supplica alla lode. Mentre preghiamo i salmi, ciò
che essi contengono, il rapporto con Dio che essi esprimono, diventano
nostro possesso personale.
Cassiano, il famoso maestro di spiritualità monastica, dice che
dovremmo recitare i salmi, come se fossimo noi stessi a comporli mentre
preghiamo.
L’esempio più alto ci viene da Gesù che, sulla croce,
in uno stato di profondo abbandono spirituale, elevò il suo grido
al Padre servendosi delle parole del salmista.
I salmi dovrebbero essere essere recitati in modo pacato ma fluente e,
se cantati, la melodia dovrebbe essere semplice e gradevole, tale da creare
un clima di tranquillità. Gli otto toni del gregoriano danno la
possibilità di scegliere un tono adatto a conferire al salmo una
nuova e specifica coloritura. Il clima liturgico deve essere tale da far
penetrare nel cuore il mistero che la liturgia celebra.
Dai salmi si passa ad una breve lettura biblica che induce alla meditazione
della Parola di Dio: nella liturgia la Sacra Scrittura acquista vita nuova.
Incastonata nel contesto liturgico del giorno, la Parola di Dio riceve
la sua attualizzazione illuminando il significato del nostro vivere quotidiano.
Punto culminante del Vespro è il cantico del Magnificat: qui al
tramonto di ogni giorno, la preghiera trova la sua più eloquente
espressione, qui c’è il mistico abbandono nelle profondità
divine, qui la dedizione di un cuore umile al volere di un Dio misericordioso,
qui un’anima piena di gioia ringrazia il Signore per tutto quello
che egli ha fatto in conformità alle sue promesse. “ E il
mio spirito esulta in Dio mio salvatore!”. Seguono le implorazioni,
quindi ci si rivolge a Dio con la preghiera che il Signore ci ha insegnato
: -Padre nostro,che sei nei cieli!-
dove ritroviamo quell’abbandono filiale e quella gioia che abbiamo
sentito vibrare nel Magnificat. Con l’orazione finale si conclude
ogni Ora liturgica.
La
Liturgia delle Ore (5)
Preghiera
nel silenzio della notte. Quando il sole scompare e sopraggiunge la
notte, le fatiche del lavoro quotidiano sono ormai terminate. Non si né
disturbati da un mondo esteriore, c’è silenzio: le stelle
brillano in cielo, ma il loro cammino è silenzioso, la loro luce
mite, dolce non abbagliante: c’è quasi un riflesso di eternità
che rifulge, il tempo sembra che si sia fermato. I Romani chiamavano la
notte profonda “intempesta”, cioè “fuori del
tempo”. Già i pagani preferivano il tempo notturno per i
riti religiosi. I riti misterici, mediante i quali si sperava di raggiungere
l’unione con la divinità, venivano celebrati di notte, e
durante la celebrazione soltanto la luce poco sicura di una fiaccola illuminava
ogni tanto la scena, ma al temine sfolgorava la luce del mistero e annunciava
la presenza della divinità.
Anche la Chiesa celebra i suoi più grandi misteri, l’Incarnazione
e la Risurrezione, nel silenzio misterioso della notte, con la veglia
di Nata
le e la Veglia di Pasqua; anzi ogni solennità di notevole importanza
e la Veglia di Pasqua; anzi, la Chiesa prepara ogni solennità di
notevole importanza con una veglia notturna , detta con termine latino
“vigilia”. Già i Greci conoscevano una celebrazione
che comprendeva la notte intera e la chiamavano “pannuchis”,
e la Chiesa del tempo antico nella notte precedenti le feste principali
vegliava l’intera notte alternando preghiere, canti e letture sacre.
Nella notte di Pasqua gli antichi cristiani attendevano il ritorno di
Cristo. Uno dei primi autori cristiani, Lattanzio, così ce ne parla:
“Il significato di questa notte è duplice: in essa egli,
il Signore dopo la sua passione è ritornato alla vita, più
tardi egli in essa ritornerà per avere il dominio su tutta la terra”
Questa celebrazione notturna è rappresentata oggi nella preghiera
della Chiesa da quell’Ora liturgica che si chiama Ufficio delle
Letture. Era chiamata “Mattutino” perché si celebrava
nelle prime ore del mattino; adesso si celebra in un’ora da scegliere
fra i Vespri ele Lodi del mattino seguente. Di particolare importanza
in quest’ora, accanto alla Sacra Scrittura, la lettura dei Padri
della Chiesa, che per la dottrina e per l’alta spiritualità
che la distingue, ci offre una ricchezza da non perdere.
Si tratta di una grande miniera di allegoria, di teologia, di esegesi,
di saggezza pratica, di ardore mistico: pagine di cultura raffinata e
di cristianesimo vissuto, che anche nella forma raggiungono spesso una
perfezione classica.
La
Liturgia delle Ore (conclusione)
Durante
il giorno. .L’oscurità della notte è terminata, la
luce si annuncia col primo chiarore del mattino; le stelle impallidiscono
e soltanto la stella del mattino rifulge ancora col suo mite splendore.
A questo punto inizia la liturgia dell’alba chiamata Lodi. Di fatto
l’anima è pervasa da un sentimento di gratitudine e di lode;
è come se voglia risvegliare il creato per invitarlo a questa lode,
per dirgli che il sole della giustizia è vicino. Mentre l’aurora
tinge il cielo di rosso, la Chiesa prega: “ Possa in questo momento,
come vera aurora, sorgere il Figlio unito al Padre”. Ed ecco sorge
finalmente, come eroe vittorioso, il sole: come Cristo, dopo la lunga
notte di morte, si alzò dal sepolcro, sfolgorante di luce. In questo
momento la Chiesa intona il cantico di Zaccaria, il canto alla redenzione
operata da Cristo:
Benedetto
il Signore Dio d’Israele
Un sole che sorge dall’alto
viene a visitarci
per illuminare coloro
che siedono nell’oscurità
e nell’ombra di morte,
per guidare i nostri passi
sulla via della pace
E’ un cantico ricco di forza virile
adatto all’inizio di un giorno operoso, mentre il Magnificat dei
Vespri è più teneramente femminile, ricco di caldo sentimento.
Poi il sole si fa sempre più ardente, ma è proprio questo
calore che fa maturare i frutti. Le ore Terza,Sesta e Nona hanno un carattere
implorativo: si chiede nuovo impulso per affrontare le fatiche del giorno.
I salmi usati in queste ore fanno parte dei cantici delle ascensioni:
erano salmi che i pellegrini ebrei che si recavano a Gerusalemme, in occasione
delle grandi feste, cantavano salendo i gradini del tempio. La Chiesa,
pellegrina anch’essa, li canta ogni giorno: comprendono i salmi
da 120 a 134, ed è bello rileggerli attentamente ogni tanto e meditarli,
perché c’è in essi tutta la spiritualità del
cammino. E’ un cammino irto di ostacoli, ma anche fiorito di speranze,
in cui scoraggiamenti e slanci di entusiasmo, soste e riprese si alternano,
nel desiderio di arrivare alla meta, a Gerusalemme. E la nostra esistenza,
la nostra giornata! Per entrare un attimo nel vivo della liturgia, fermiamoci
ad esempio su due di questi salmi che la Chiesa canta ogni giorno a Nona.
Nel salmo 127 vediamo il pellegrino giungere a Gerusalemme: egli vede
il tempio in ricostruzione: un cantiere di lavoro. Gli uomini spendono
energie e denaro perché il tempio è il centro spirituale
d’Israele. Tuttavia qui c’è un triplice “invano”.
Il pellegrino, un po’ ironico, pensa: Si, tanto lavoro, ma è
inutile se non è il Signore che costruisce. Il pellegrino non disprezza,
no, l’impegno, la fatica degli uomini; soltanto dice che ciò
che conta è che chi dà quello che occorre è il Signore.
Noi da soli non possiamo fare nulla! E’ quell’abbandonarsi
fiducioso nelle mani di Dio, perché l’iniziativa è
e rimane sua! Ricordiamo che è stato Salomone a ricostruire il
tempio. Nel capitolo 3 del primo libro dei Re, Salomone, appena intronizzato,
si ritira presso il santuario che è ancora una tenda, e passa la
notte lì. Nel sonno ha un sogno e in esso chiede a Dio la sapienza
del cuore. Nel secondo libro di Samuele leggiamo che quando Salomone nasce
gli viene dato il nome di Iedidia, che vuol dire: amico di Dio. Salomone,
l’amico di Dio, attraverso il sogno ha ottenuto la sapienza del
cuore e sarà lui il sapiente costruttore del tempio, perché
è colui che vive in obbedienza all’iniziativa di Dio, diviene
strumento nelle mani di Dio per un’impresa colossale come fu la
costruzione del tempio. Salomone non è un uomo disimpegnato, astratto;
ma è sognatore, in quanto a occhi chiusi, potremmo dire, come amico
del Signore è pronto ad aderire all’iniziativa del Dio vivente.
Il Signore lo trova docile, trasparente, discreto, e da questo gli deriva
una grande capacità operativa. Beato l’uomo che si affida
alla gratuità della provvidenza divina! E’ la fiducia in
un Dio che tiene nelle mani il futuro!
Il salmo continua:”Dono del Signore sono i figli”. I “figli”
qui significano le generazioni che verranno, la storia futura: in ebraico
essi sono :Nahalàt Jawe (JHWH) = eredità del Signore, ed
è questo il termine che significa la terra promessa. Ciò
vuol dire che i figli servono ad assicurare la terra promessa . Essi sono
“frecce appuntite”, metafora per dire che con i figli forti
un padre,come un “eroe”, può affrontare la vita.
Sembra un paradosso, ma è cosi: se dormiremo e sogneremo, nel senso
indicato dal salmo, daremo frutto. Dobbiamo imparare a “sognare”,cioè
a dare dentro di noi tanto spazio all’iniziativa divina, alla gratuità
della sua provvidenza.
Il salmo 128 è una prosecuzione ideale di quello precedente.Qui
si parla di un uomo attivo che cammina per le “sue” vie; il
quotidiano cammino è affrontato con pazienza, ma sono vie “sue”,sono
le vie di Dio. Per l’uomo che teme il Signore il quotidiano è
il luogo dell’incontro con Dio ed è l luogo in cui tutto
è dono di Dio.
Dopo queste riflessioni sulla Liturgia
delle Ore, più forte diventa in noi la convinzione che, se ci concediamo
una pausa per dedicarla a questa preghiera, noi non togliamo niente alle
nostre attività, anzi è in quei momenti che acquistiamo
forza operativa; sono momenti di
“sogno”, sono squarci di luce che illuminano il nostro quotidiano
e permettono al Sole di giustizia di entrare nella nostra esistenza per
farci continuare il nostro cammino con forza e gioia.
Sr.
Beatrice OSB
Da
Montefiolo, Casa della Risurrezione
Riportiamoci
a quell’unità di vita di cui abbiamo parlato in apertura
a questa rubrica di “Spiritualità” in seguito alla
“Giornata di Gesù” di Don Matteo. Da quanto abbiamo
detto finora si può dedurre che essa coincide con la preghiera
incessante. Quello che celebriamo sacramentalmente dovremmo viverlo esistenzialmente.
Liturgia e vita dovrebbero compenetrarsi, altrimenti forse non celebriamo
niente: l’una dà senso all’altra. Battesimo, sacramento
del perdono, eucaristia, se celebrati con vera fede, diventano la forma
trasformante della nostra vita; forse spesso celebriamo il mistero di
Cristo, ma poi nella vita non ne accettiamo tutte le implicazioni. Gli
altri hanno spesso da rimproverarci questa mancanza di coerenza, di autenticità,
di trasparenza, e se il mondo d’oggi è scristianizzato, secolarizzato,
se ci sono tante situazioni negative nella società di oggi, questo
è dovuto, secondo gli esperti in materia, anche e forse in gran
parte, a questa frattura che c’è nella vita cristiana. Quando
diciamo che la fede ci fa vedere la verità delle cose dovremmo
aggiungere che non basta “ vedere” la verità, ma bisogna
che essa penetri nella nostra vita e trasparisca dal nostro agire, dal
nostro stile di vita. Questa è la fede incarnata che si esige da
noi cristiani: se diciamo di credere in un Dio che è venuto incontro
agli uomini per condividere in tutto la loro condizione umana, l’incarnazione
della fede significa andare verso le tante povertà dell’uomo
di oggi, soffrire della sua sofferenza facendosene carico. Il mondo vuole
che noi siamo “veri” cristiani
Nelle prime comunità cristiane la carità verso i fratelli
bisognosi era inserita nella celebrazione liturgica, e diventava così
un atto liturgico, un segno dell’agàpe di Dio per gli uomini.
Una pagina del vangelo di Matteo suscita in me sempre lo stesso pensiero:
è quella del giudizio finale (Mt 25,31-46). Quando nella celebrazione
eucaristica acclamiamo: “Ogni volta che mangiamo di questo pane
e beviamo a questo calice, annunciamo la tua morte, Si-gnore, e proclamiamo
la tua risurrezione”, mi sembra che faccia eco la voce del Signore
che dice:” Ogni volta che dai da mangiare a chi ha fame, e dai da
bere a chi ha sete, che vesti l’ignudo, accogli lo straniero e visiti
il malato e vai a trovare il carcerato, lo fai a me! Io son o lì
ad aspettarti! Sia incessante per te questa liturgia, continua a celebrarla
con la tua vita! “Davanti a questa pagina di Matteo forse qualcuno
ha pensato che Gesù abbia voluto istituire altri sacramenti! Certo,
non lo ha fatto, ma ci ha certamente indicato tanti segni sicuri della
sua presenza!
Nel monastero che stiamo visitando, altri segni sicuri della presenza
di Cristo sono gli ospiti e accogliere loro fa parte certo della preghiera
incessante. Per farsene un’idea bisogna leggere il cap. LIII della
Regola: “Tutti gli ospiti siano accolti come Cristo… i monaci
gli vadano incontro con ogni dimostrazione di carità... si adori
in loro Cristo stesso che viene così ricevuto... si prenda cura
specialmente nell’accogliere i poveri ed i pellegrini, giacché
i loro ancor più si accoglie Cristo”. Bisogna ricordare,
per entrare nello spirito che anima questo capitolo, l’atteggiamento
della peccatrice nei riguardi di Cristo nella casa del Fariseo ( Lc 7,36)
Anche nel motto programmatico benedettino “Ora et labora”
è espressa la continuità della preghiera: sono stati cantati
i salmi in chiesa, ma lo stesso spirito e lo stesso intento devono animare
il lavoro. Non “ora aut labora, ma “ora et labora”;
in questo armonico ritmo di vita è indicata a tutti la via per
raggiungere un equilibrio umano, nel più alto significato che
si può dare a questa parola, perché in esso tutto l’uomo
nella sua unità e totalità è im-pegnato nel servizio
a Dio e nel dargli gloria.
Visita a un monastero Benedettino
Montefiolo – Casa della Risurrezione
Silenzio e Parola
Uno
dei tanti bei chiostri benedettini ci accoglie: armonia di linee, gioco
di luci e di ombre ,verdi aiuole si offrono al nostro sguardo sguardo
attraverso le arcate; e ci troviamo d’un tratto immersi nel silenzio.
Il rumore, il frastuono ce li siamo lasciati alle spalle. Qui regna il
silenzio, perché qui ci sono coloro che hanno sentito il bisogno
di far tacere, dentro di loro e intorno a loro, qualsiasi voce o rumore
che possa disturbare o interrompere questo silenzio; dentro di loro: rumore
spesso confuso di sentimenti e pensieri, di inutili e spesso evasive aspirazioni;
intorno a loro: il frastuono di varia provenienza della vita di oggi.
S. Benedetto dedica un bel capitolo al silenzio nella sua Regola: esso
è un habitus, uno spirito (taciturnitatis gravitas), dettato dal
desiderio di far tacere se stesso (quindi dall’umiltà), per
ascoltare (obbedienza) una sola, unica parola: Cristo, parola eterna del
Padre. Anche soltanto per percepire la voce che chiama e che ci indica
la via da seguire, c’è bisogno di spazi e tempi di silenzio;
come fanno a capire questo quei giovani che sono sempre dispersi fra mille
voci? IL silenzio è questa ten-sione di ascolto: un silenzio non
vuoto, ma pieno di questa Parola; siamo nel chiostro (claustrum, da claudere),
luogo chiuso ad ogni altra voce, ma tutto aperto alla voce “dall’alto”.
Ecco perché quando, percorrendo il chiostro, scorgiamo la bianca,
maestosa statua di S. Benedetto, ci volgiamo a lui, come al padre che
ci aiuta in questa vita di ascolto. Ci mostra un libro aperto, su cui
si vde a grandi caratteri: “AUSCULTA, FILI” (Prol. 1). E a
questo punto potrei dire che è tutta qui la vocazione benedettina.
Ausculta: è il Padre che c’invita nad ascoltare la voce divina;
non ci chiama ad altro: il monaco è colui che è stato chiamato
a stare in perenne ascolto della parola di Dio. Ricordiamo:Dio così
convocava il suo popolo :”Ascolta, Israele!”: il monaco è
colui che rimane convocato per sempre alla presenza di Dio, per ascoltarlo.
S. Benedetto continua: ”Inclina aurem cordis tui” : Tendi
l’orecchio del tuo cuore! (Prol. 1). “Bisogna qui ricordare
che S.Benedetto vuole dare al termine “Ausculta” tutto il
significato biblico che questa parola ha : udire,accogliere nella fede
questa parola ed agire in conseguenza, obbedire ad essa.Audire è
obaudire: un ascolto quindi che coinvolge tutta la vita,che ci fa vivere
in un determinato modo invece che in un altro. E S.Benedetto mostra appunto
nella sua Regola una via, un modo concreto di ascolto: chi dallo Spirito
si è sentito attratto ad entrare in un monastero, se veramente
vi è stato chiamato da Dio, deve poi acquistare la convinzione
ferma che è questa la sua via. Ci sono tanta vie, ma ognuno di
noi è veramente a posto quando è sulla sua via. Ecco perché
a chi chiede di entrare a far parte di una comunità monastica si
legge dopo un periodo di due mesi, per intero, questa Regola e gli si
dice: “Ecco la legge sotto la quale desideri prestare servizio:
se puoi osservarla, entra, se invece non puoi sei libero di andartene”
(RB LVIII). Se egli persiste, dopo sei mesi gli si rilegga la Regola,
perché sappia a che cosa si prepara. Se persevera ulteriormente,
dopo quattro mesi gli si rilegga ulteriormente la stessa Regola. Intanto
deve dimostrare anche che egli cerca veramen te Dio, che è pronto
all’Ufficio divino, ad obaudire. Se poi, dopo aver seriamente riflettuto,
prometterà di osservare tutto quanto, allora sia pure accolto nella
comunità”. E così intanto, dopo aver sostato nel chiostro,
entriamo anche noi in questa Casa.
Continuando
la visita ad un monastero Benedettino
Vita
in Cristo
Dopo
la sosta nel chiostro entriamo in casa. Qui andiamo prima di tutto nell’oratorio.
Esso deve essere, dice S.Benedetto, “quello che dice il suo nome,
né vi si facciano o si ripongano altre cose”(RB VII,1). Qui
il nostro sguardo si posa subito sull’altare: ci colpisce la posizione
centrale che in questa chiesa esso ha e che sottolinea visibilmente la
sua centralità nellavita del monaco e della comunità monastica.
Al novizio ,prima che egli sia ammesso nella comunità, viene ripetutamente
letta la Regola, egli deve percorrere quindi delle tappe che segnano un
cammino. Questo cammino è come una processione introitale con la
quale il novizio si avvia verso l’altare, su cui il giorno della
professione monastica deporrà l’atto della professione. Con
questo atto egli depone sull’altare tutta la sua vita. Ma l’altare
è Cristo, la pietra angolare dell’edificio spirituale che
è la Chiesa. Già inserito vitalmente in Cristo nel Battesimo,
il monaco vuole con morte e la sua professione monastica vivere radicalmente
fino alle sue ultime conseguenze il suo Battesimo. Così egli, facendo
ogni giorno morire in sé l’uomo vecchio e risorgendo continuamente
a vita nuova, partecipa quotidianamente alla morte e risurrezione di Cristo,
al suo mistero pasquale. Questa partecipazione al mistero pasquale di
Cristo, che ha il suo momento forte nella celebrazione eucaristica, si
estende a tutta la vita del monaco, sicché tutto è integrato
in essa. Gli oggetti del monastero sono considerati come fossero vasi
dell’altare (RB 31,10), ogni servizio,dal più alto al più
umile, riceve da questo tutta la sua dignità ed il suo significato.
Nelle prescrizioni liturgiche della Regola la Pasqua è il centro
verso cui convergono gli altri tempi liturgici. Ma non solo la liturgia
è disposta in funzione della Pasqua, anche tutto ciò che
si svolge nel monastero è regolato dalla Pasqua (lettura,lavoro,pasti,
le diverse osservanze (RB XlL) .Dunque non si tratta qui d’una data
e d’una semplice festa, ma del mistero che essa celebra: la vita
del monaco è essenzialmente partecipazione alla morte e risurrezione
di Cristo. (Prol.50). Il monaco è un battezzato che vuole vivere
fino in fondo la dinamica del suo Battesimo e così tutta la sua
vita diventa in Cristo una preghiera incessante
Continuando
la visita ad un monastero Benedettino
La preghiera incessante
Ma
che cosa è questa preghiera incessante che riassume praticamente
tutta la spiritualità cristiana, questo “pregare sempre,
senza stancarsi” che vediamo in Luca 18, 1. ? Stiamo parlando ancora
della visita ad un monastero benedettino per spiegare in termini concreti
che cosa è la vocazione benedettina. Su questo argomento però
vorrei soffermarmi un po’ di più perché esso riguarda
non solo i monaci, ma tutti i cristiani che vogliono vivere coerentemente
il loro battesimo. Tante definizioni sono state date della preghiera,
ma l’essenza è sempre questa: un rapporto d’amore col
Padre. Una volta uniti vitalmente al Padre in Cristo, per mezzo dello
Spirito, una volta divenuti suoi figli, non possiamo essere qualche volta
figli e qualche volta no: tutta la nostra esistenza dovrebbe essere un
rapporto d’amore col Padre, tutto dovrebbe essere espressione dello
Spirito che in me grida: “Abbà, Padre!” (Gal 4, 6):
Tutto: il mio parlare con Dio e il mio parlare con i fratelli, il mio
tacere, il mio agire e la mia impossibilità di agire. La preghiera
incessante, che anche S. Paolo raccomanda ( Ts 5, 17; Rm12, 12; Col4,
2; Ef 6, 18 ) si ha quando il culto che viene celebrato nel rito viene
espresso nella vita del cristiano. Così tutta la vita diventa una
liturgia! In 2Cor 9,12 la carità verso i fratelli bisognosi è
un servizio liturgico (9,12); in Rm1, 9 la predicazione del Vangelo è
“liturgia spirituale”, e in Rm 12,1 vengono esortati i fratelli
ad offrire i loro corpi “come sacrificio vivente, santo e gradito
a Dio: è questo il vostro culto spirituale”. S. Tommaso dice,
ispirandosi a S. Agostino e a tutta la tradizione, che la causa della
preghiera è il “desiderium caritatis” il desiderio
della carità.
Nel Deuteronomio ci vien detto: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto
il cuore, tutta l’anima e con tutte le forze” (6, 5): si tratta
qui di una carità totale di cui non si può indicare il limite;
ma se l’aspirazione a questa carità (desiderium caritatis)
è la causa della preghiera, anche la preghiera è senza limiti,
è coestensiva ad un amore senza misura. Essendo dunque uno solo
lo spirito che anima preghiere ed opere buone, prega sempre colui che
alterna preghiera ed opere conformi alla volontà di Dio. Qui il
significato di preghiera si estende ad una disposizione profonda che anima
le nostre occupazioni. Il problema l’ha risolto Origene quando ha
affermato nel suo “De oratione” (XI):”Prega incessantemente
colui che aggiunge alla sue opere giuste la preghiera, alla preghiera
le azioni convenienti”. E’ questo il canto nuovo che si richiede
all’uomo nuovo emerso dalle acque del battesimo. Non posso non citare
S. Agostino perché nelle mie vene c’è sangue benedettino
e in S. Benedetto c’è molto d’Agostino, il quale esorta:
”Cantate con la voce, cantate con il cuore, cantate con la bocca,
cantate con la vostra condotta santa: cantate al Signore un canto nuovo
(Sal 149,1)….Siate voi stessi quella lode che si deve dire e sarete
la sua lode se vivrete bene”. Questo è il “mens concordet
voci” che S. Benedetto raccomanda ai suoi monaci.
Conclusione
La
conclusione della preghiera incessante potrebbe coincidere con quella
della visita ad un monastero benedettino, perché l’esistenza
di una comunità monastica potrebbe essere definita una preghiera
incessante. Di questa preghiera la liturgia delle ore offre i momenti
forti, perché in essa continua la celebrazione del mistero della
salvezza, nella quale il monaco e la comunità monastica s’integrano
in quella preghiera incessante che Cristo nella sua Chiesa, con la sua
Chiesa, rivolge al Padre. Per questo l’Opus Dei, pur non essendo
l’unica parte della vita del monaco, ne è la parte eminente
cui nulla si deve anteporre:”Nihil operi Dei anteponatur”
RB XLIII, 3). Le Ore liturgiche ritmano la giornata del monaco, sostenendone
tutto l’arco,
“ come i piloni di un ponte” (De Vogue). Celebrandola la comunità
monastica obbedisce al comando di pregare sempre quale lo vediamo nella
Sacra Scrittura. (Lc 18;At 2.4; 1Ts 5,16-18; Rm 12,12; Col 4,2; Ef 16,18).
Prima di lasciare il monastero, completiamo la visita visitando la biblioteca.
Ogni monastero benedettino ha una biblioteca più o meno grande;
più o meno ricca di volumi. L’apporto dei Benedettini nel
campo della cultura è stato sempre grande; se i capolavori della
letteratura classica sono giunti fino a noi, lo si deve in gran parte
agli scriptoria dei benedettini. Ma l’opera culturale di questi
non si è fermata là, ha continuato nei secoli a contribuire
ampiamente alla formazione umana e cristiana delle coscienze, all’elevazione
spirituale degli uomini di tutti i tempi. Mentre il nostro sguardo si
posa su tutti quei volumi, in un angolo della biblioteca, un monaco tutto
assorto nella lettura attira la nostra attenzione. L’angolo è
illuminato dalla luce raccolta e discreta del sole che volge ormai al
tramonto. E’ l’ora della lectio divina (RB cap. XLVIII): è
questa una delle colonne su cui poggia la spiritualità monastica.
Ogni giorno il benedettino dedica uno spazio di tempo alla lectio divina.
Si tratta di una lettura dedicata alla parola di Dio. E’ una lettura
calma in cui il monaco si mette in rapporto con Dio, con atteggiamento
d’amore: come si fa con la lettera di una persona amata. La S. Scrittura
è infatti la lettera di Dio a noi suoi figli: si tratta di accogliere
nel nostro cuore la sua parola. Non bisogna mettersi in quel momento davanti
al Libro con atteggiamento critico, mettendo fra noi e quello che Dio
dice i nostri ragionamenti che sono sempre una infrastruttura. E’
un cibo che tu prendi per assimilarlo, perché diventi tessuto della
tua carne, quindi è una lettura lenta, ripetuta, “ruminata”
dicono i Padri. E si ha allora il momento in cui senti dentro di te la
luce ed il calore di Dio, una conoscenza che si chiama conoscenza d’amore.
Nessuno sforzo della più alta intelligenza umana potrebbe dare
una conoscenza di Dio così profonda, immediata, intima, come può
fare la conoscenza d’amore. Perché Dio è amore, e
solo attraverso questa via puoi conoscerlo. Perciò la lectio divina
diventa una lettura orante. Si capisce allora quale spazio privilegiato
essa è nella giornata di un monaco, l’uomo dell’ascolto,
l’uomo che cerca Dio. S. Benedetto era tale. La sua Regola sgorga
dalla Sacra Scrittura in modo quasi naturale, come una sorgente dalla
roccia. La Sacra Scrittura è l’humus naturale della Regola:
come attraverso un cristallo terso e trasparente, attraverso la Regola
leggiamo la Parola di Dio, ed è evidente che di questa S. Benedetto
si nutriva, di questa viveva.
Ed è venuta l’ora di concludere la nostra visita; fuori è
già buio, ma ci portiamo dentro di noi una visione di pace e tanta
luce.
Suor
Beatrice
LETTERE
A FAUSTA
RIFLESSIONI
SULLA QUARESIMA
In
una rubrica come questa intitolata “Spiritualità”,
vorrei chiarire subito che per me, in quanto cristiana, vita spirituale
vuol dire vita plasmata dallo Spirito Santo. Un lungo uso spesso banalizza
le espressioni. Ma quando queste riacquistano il loro significato si rivestono
di splendore. Vorremmo dire che non si può parlare di vita spirituale
se non si parla di conversione, perché la vita spirituale è
un cammino, un esodo da vivere sotto la guida dello Spirito, verso la
Pasqua. Vita spirituale vuol dire passione,amore che spinge continuamente
l’uomo a cercare quel Dio la cui immagine è impressa nel
suo cuore,a desiderare la comunione completa con lui. Questa passione
è anche in Dio. E’ una ricerca appassionata l’uno dell’altro,
capace di sofferenza l’uno per l’altro, nella tensione verso
un’unione perfetta. Nella Quaresima, tempo forte, noi viviamo più
intensamente questo: la Chiesa c’invita continuamente ad una maggiore
consapevolezza di questo mistero d’amore che viviamo sotto l’azione
dello Spirito, ad una revisione del nostro modo di viverlo, ad un ulteriore
slancio verso l’incontro desiderato, cioè verso la Pasqua
ultima, di cui la Pasqua liturgica è segno, è preannuncio.
La Quaresima è il tempo di una più viva partecipazione all’azione
salvifica di Cristo mediante lo Spirito “ se veramente partecipiamo
alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria” (Rm.
8,17), e da ciò deriva il suo carattere sacramentale Anche le opere
penitenziali sono il segno della nostra amorosa partecipazione al mistero
di Cristo che per noi si fa penitente col suo digiuno di quaranta giorni
nel deserto,e soprattutto con la sua passione e la sua morte. Ed è
il Signore stesso che dona efficacia alla nostra penitenza la quale diventa
così un’azione liturgica, cioè azione di Cristo e
della sua Chiesa. Questo è chiaramente espresso nel Prefazio IV
di Quaresima : ”Tu, o Dio, vinci le nostre passioni, elevi lo spirito,
infondi la forza e dai il premio per Cristo nostro Signore”.
Questa sicurezza che è lui stesso, il Signore, a vincere le nostre
passioni, ad elevare il nostro spirito, a infonderci forza, m’incoraggia,
mi dà fiducia nel cammino quaresimale verso la Pasqua, mi dà
gioia! Si può parlare di gioia quaresimale? Si, ed anche d’intensa
gioia, perché, come abbiamo detto, il Signore cammina accanto a
noi, e perché attendiamo l’avvenimento più importante
della nostra esistenza, anzi attendiamo ciò che dà senso
a tutto il nostro esistere: la Pasqua! S. Benedetto nella sua Regola,
nel capitolo che tratta della Quaresima, usa due volte il termine gaudio:
è il gaudio spirituale che ci dovrebbe animare in questo tempo
forte dell’anno liturgico!
Vita spirituale è quindi vita di conversione e conversione è
cambiamento di direzione, è ritorno,
è un voltare le spalle agli idoli per guardare al Dio unico e vivente
ed accettarlo pienamente nella propria vita. L’ascolto più
frequente della Parola di DIO, la preghiera più intensa e prolungata,
il digiuno, le opere di carità ci aiutano ad essere disponibili
all’azione dello Spirito in noi,altrimenti da soli non possiamo
farcela. Perciò diciamo col profeta Geremia:” Fammi ritornare
a te,Signore, ed io ritornerò”.Si, perché il peccato,
la conversione, non sono un fatto del passato avvenuto una volta per sempre;
essi sono sempre presenti perché gli idoli cui si è rinunziato
e altri nuovi idoli che sorgono riescono sempre a sedurci e a renderci
schiavi. Una vita di fede è quindi un continuo ritorno, un continuo
volgere le spalle al male, per volgersi a Dio con tutto il proprio essere.
Uno degli apoftegmi che più spesso ricordo e che più mi
aiuta
è il seguente:” Fu chiesto ad un anziano monaco :”
Abba, cosa fate voi qui nel deserto?” L’ abba rispose :”
Noi cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo, cadiamo ancora e ci
rialziamo ancora”
Leggevo qualche giorno fa, durante la lectio divina, la Lettera agli Efesini
e precisamente le 5,25-27; mi giungevano intanto dalla chiesa,dolci e
solenni, le notedi Urbs Jerusalem beata, l’inno per la dedicazione
di una chiesa. In Quaresima, in quel momento di preghiera, ascoltare quelle
parole già tante volte ascoltate, è stata un’esperienza
nuova,forte;
Tunsionibus,
pressuris
expoliti lapides
suis coaptantur locis
per manum artificis;
disponuntur permansuri
sacris aedificiis
Da colpi
e pressioni
levigate le pietre
sono rese adatte alla loro collocazione
dalla mano del costruttore:
sono disposte in modo da restare salde
nel costituire gli edifici santi
Per la verità quei colpi e quelle pressioni per levigare le pietre,
non è che mi entusiasmassero tanto dandomi gioia,(specialmente
in quel latino così incisivo e martellante); era piuttosto un senso
di timore che affiorava, nella consapevolezza della mia fragilità,
di quella debolezza naturale che ci accompagna dalla nascita alla morte
e che tanto spesso ci induce a cedere ed a indietreggiare quando ci è
richiesto il sacrificio di quanto abbiamo di più caro e della stessa
vita. Colpi e pressioni! E’ il martirio! Martirio vuol dire testimonianza,
anche non cruenta, ma certamente sofferta, solida e senza compromessi
o cedimenti. Ne ho il coraggio? A questo punto una splendida figura si
è delineata sul mio orizzonte spirituale. “Coraggio, sono
io! Sono lo Sposo che ho amato tanto la mia Sposa da dare me stesso per
lei,che la purifico per renderla sempre più bella, tutta gloriosa!”(cfr:
Ef. 5,25-27) E rimasta nel mio cuore la lectio divina di quel giorno di
Quaresima!
Suor
Beatrice
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Carissima,
quando sei venuta a Montefiolo anche tu, come tanti altri specialmente
di gruppi giovanili, eri interessata alla nostra vita. Mi hai posto due
precise, anche perentorie domande: ”Perché ti sei fatta suora?
Perché benedettina?”. Adesso sento che quanto ti ho detto
di Montefiolo e della unità di vita rimarrebbe incompleto se non
cercassi di rispondere a queste tue domande. Ti dico subito che non è
facile, e sarei tentata di darti la risposta che dava S. Agostino quando
gli si chiedeva che cosa è l’essere: ”Se me lo chiedono,
non lo so, se non me lo chiedono…. lo so”. Risposta evasiva,
ma forse l’unica vera. Si, perché quando un’esperienza
intima, tutta tua, invade tutto il tuo essere è difficile farla
passare attraverso il filtro del ragionamento e delle parole. Diminuiresti
tutto. Qui non c’è psicologia, non ci sono esami introspettivi
che tengono. Come fai a sapere e a dire perché una persona di cui
ignoravi l’esistenza, o della cui presenza non ti accorgevi neppure,
o che forse hai amato da sempre senza saperlo, a un certo punto ti prende
come una novità che ti affascina e da cui non sai più distogliere
lo sguardo, perché senti che è la tua ragion d’essere
e che senza di lei la tua vita non avrebbe nessun senso? E senti che tutto
il resto non conta, che devi liberarti di tutto per poter stare con lei,sola
con lei soltanto, perdere la tua vita per lei? Questa persona è
Dio ed io l’ho incontrata, Era un alba dorata che preannunciava
un giorno pieno di sole e mi invitava a progettare una giornata di mare,
con tanta gioia e tuffi nell’acqua limpida del mio bel mare calabrese.
Sono arrivata un po’ tardi a Messa, il sacerdote stava leggendo
il Vangelo e in quel momento mi sembrava che riecheggiassero in modo particolare
le sue parole: “Vide un pubblicano seduto al banco delle imposte
e gli disse :”Seguimi”. Egli, lasciando tutto, si alzò
e lo seguì.”
Per
tanti giorni è stato come se una voce dolce e ferma mi ripetesse
“SEGUIMI” e quel lasciare tutto, quell’alzarsi e seguire,erano
parole che non mi lasciavano più , come se fossero andate a scolpirsi
nel mio cuore. Qualche tempo dopo sono venuta a Montefiolo per fare gli
Esercizi spirituali, e qui in questo profondo silenzio e contemplando
le bellezze del creato, quel dolce invito mi inseguiva e sempre più
entrava nel mio cuore, mi conquistava : Seguimi! E da Montefiolo ho scritto
ai miei che avevo deciso di lasciare tutto, di alzarmi e seguire Colui
che era diventato il Signore della mia vita! Ma chi ti apre gli occhi
per farti vedere la novità, chi ti rende una persona nuova , chi
ti dà la forza e la gioia di decidere è l’amore del
Padre che prende sempre l’iniziativa . E qui entriamo nel mistero:
bisogna solo viverlo e lasciarsi sempre più prendere e perdersi
in questo fascinoso e tremendo abisso d’amore.
Una mia convinzione personale è che per intuire e sperimentare
meglio certi aspetti dell’amore divino si può cercare di
stabilire un’analogia con l’amore umano. Quando questo è
vero, beninteso. Anche l’amore umano è rivelazione e mistero,anche
esso è novità che ti fa una persona nuova. Ma è solo
un’analogia, un metodo pedagogico se vuoi, la dimensione è
fondamentalmente diversa. Ma, ripeto si tratta solo di una convinzione
personale.
Vorrei chiarire che quello che ho detto si può vivere anche senza
entrare a far parte di un determinato istituto religioso con un determinato
regolamento di vita. Ma se per motivi diversi di predisposizione e tendenze
o motivi umani, in cui s’intravede anche la volontà divina
, decidiamo di viverlo in forme concrete di vita, ispirate e volute anche
esse dall’amore divino, allora si spiega perché al sostantivo
vocazione si può aggiungere un aggettivo qualificativo, come per
esempio:benedettina.
Ed eccomi alla seconda domanda: perché benedettina?
Essere benedettini è un determinato modo dì essere, di vivere,
e più lo si vive e più si sviluppa e si specifica. Per questo
più che darti definizioni astratte ed incomplete preferisco presentarti
concretamente alcuni aspetti del vivere benedettino. Alcuni anni fa avevo
il compito di guidare i visitatori delle catacombe di Priscilla che si
trovano sotto la nostra Casa di Roma.
Adotterò il mio antico schema di lavoro e ti guiderò a fare
una visita ideale in uno dei tanti monasteri benedettini del mondo. Immaginiamo
dunque di trovarci davanti al portone di una Casa benedettina. Subito
al nostro sguardo si presenta l’emblema benedettino scritto a grandi
caratteri sull’arco soprastante, è la parola PAX. E’
un emblema perché la vita benedettina s’ispira a questa pace.
Non certo una pace falsa, una pace di compromesso fondata sull’accomodamento.
Per capire meglio il significato pieno della pace benedettina permettimi
una breve parentesi linguistica. Questa parola,pace, ha spesso significato
di saluto e messaggio. E’ il saluto che Cristo risorto dà
ai suoi discepoli. E’ il saluto ed il messaggio che la comunità
benedettina dà a chi entra nella sua Casa. E’ piuttosto un
segno che già di per sé comunica ed attua in parte la realtà
indicata: la pace. Infatti questo saluto ha una forza obbligante per chi
lo porge, in questo caso per la comunità benedettina che accoglie
l’ospite, perché egli si rende responsabile per la pace della
persona cui il saluto è rivolto, accordandole di partecipare alla
sua pace, al suo benessere. La pace è un ambito in cui chi è
così salutato si sente subito accolto, è un saluto che presuppone
di per sé un rapporto di naturale fiducia, e di per sé stabilisce
per così dire un alone di pace. Ma le parole spesso tradiscono
il pensiero, oppure il loro uso frequente, a proposito o a sproposito
le svuota di significato. Così il termine pace nelle varie lingue
ha significato e significa spesso una non-guerra, assume un significato
relativo, è in relazione alla guerra. Invece la comunità
benedettina che porge questo saluto vuole dare a questo termine il suo
significato pieno ed assoluto, e questo lo si deduce da tutta la Regola
di S. Benedetto. C’è un termine che significa pace in senso
pieno, nella sua totalità, nel significato globale di pienezza
d’ogni bene. E’ il termine ebraico “SHALOM” la
cui radice SLM significa in tutta l’area semitica, benessere totale.
Si tratta di un ricupero della integrità assoluta dell’uomo,
nel suo rapporto con se stesso, col suo ambiente naturale e umano, con
Dio, l’uomo senza il suo rapporto con Dio non è intero, lo
è solo nella viva percezione di essere in rapporto con Dio: “Il
Signore è il mio pastore, non manco di nulla” (Sal. 22).
Per definire ancora meglio il significato della pax benedettina, vorrei
citare S.Agostino che ha scritto una piccola metafisica della pace nel
libro XIX del De Civitate Dei. Con la sua definizione“ Pax omnium
rerum tranquillitas ordinis” dà al termine pace il significato
di un rapporto ordinato e senza turbamenti, di un ordine armonico nel
quale entità diverse sono rapportate reciprocamente in modo da
esistere tranquille secondo la loro determinazione naturale, ognuna al
suo posto. La preoccupazione di Benedetto è che tutto si faccia
in modo che regni la pace fondata sull’equilibrio e sul famoso principio
della discrezione. Equilibrio che ripartisce le ore della giornata fra
la preghiera ed il lavoro, equilibrio che tiene conto di tutta la persona
umana, della sua dignità, delle sue possibilità e dei suoi
limiti, della sua integrità. E c’è il principio benedettino
della discrezione ad assicurare la pace. Per quanto riguarda l’osservanza
esteriore S. Benedetto non prescrive nella sua Regola norme dettagliate
rigidamente assolute, C’è una flessibilità, un ordine
dinamico: ogni persona è una realtà concreta vivente, diversa
dalle altre, e di questa diversità di persone si tiene conto nella
Regola: diversità di provenienza, di carattere, di cultura e di
doni, con una fondamentale uguaglianza in Cristo, perché tutti
ugualmente figli di Dio. C’è anche la diversità di
circostanze esterne (luogo, tempo, ambiente) di cui bisogna tener conto.
Entra quindi il principio della discrezione, che è una novità
rispetto alle regole precedenti.
Questo augurio di pace intesa in senso pieno ed assoluto ci dà
fiducia e c’incoraggia a varcare le soglie del monastero.
Suor
Beatrice
---
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Carissima
Fausta, non deliberatamente, ma provvidenzialmente direi, questa rubrica
di spiritualità è iniziata con “Una giornata di Gesù”
di Don Matteo. Perché ti dico questo? Perché volendo io
parlarti in alcune lettere della spiritualità che anima la comunità
benedettina cui appartengo, quale migliore introduzione di questa? Gesù
in orazione, Gesù in azione, in una unità di vita che non
conosce dicotomia fra contemplazione ed azione: è semplicemente
la stessa vita di continua unione col Padre che si esprime nei due modi.
Per la mia comunità si tratta piuttosto di un’unità
di vita in cui tutto diventa estensione del mistero di Cristo celebrato
su quell’altare che è centro della vita della comunità
e vertice verso cui tutto converge. Ciò si esprime nel ritmico
“ora et labora” benedettino, ma dovrebbe essere espresso nella
vita di ogni cristiano radicato nel suo Battesimo ,che trascorre quindi
la sua giornata terrena in sintonia con la giornata di Cristo.
Di
tale orientamento spirituale,a noi Benedettine di Priscilla viene continuamente
riproposto un modello dall’antichissima Fractio Panis di un affresco
che si trova nelle catacombe sottostanti la nostra Casa di Roma sulla
Via Salaria. Vi sono raffigurate sette persone sedute intorno ad una mensa;
un personaggio a sinistra tende le mani nell’atto di spezzare il
pane. La scena è completata da sette ceste di pane poste ai lati
della mensa. Una stupenda didascalia di questa immagine potrebbe essere
uno dei primi documenti cristiani, la Prima Apologia di Giustino che descrive
il rito eucaristico del secondo secolo. Ivi il gesto di Cristo,ripresentato
dal rito, trova risposta e continuazione nel gesto concreto del servizio
ai fratelli, nella carità umana che diventa elemento essenziale
del rito stesso . Così la Frazione del Pane riunisce
la comunità ecclesiale, la costituisce come tale, diventa principio
animatore del suo agire, del suo vivere.:::
Questa è
unità di vita perché la liturgia celebrata sfocia nella
vita, diventa liturgia di vita. Una comunità religiosa ha il dovere
di testimoniare questa unità di vita, ma ogni cristiano in quanto
tale ha il dovere di realizzarla se non vuole vivere da schizofrenico.
Che significato hanno le piazze strapiene , le chiese piene di gente che
si riunisce davanti ad un altare, se poi si vive come se la vita non avesse
senso , in un disorientameno spaventoso?
Dove è “la giornata di Gesù”?
Nel
tuo bell’articolo apparso sul Giornale di Rieti, intitolato “Montefiolo,
quattro giorni indimenticabili”, dici che il termine “silenzio”
può apparire desueto. Poi dici di avere ascoltato conferenze sull’umiltà,l’obbedienza,
la misericordia,l’ascolto, la centralità della parola di
Dio, la serenità che non è rassegnazione, il “ruminare”
continuamente la parola di Dio . Io penso che anche questi termini siano
piuttosto “desueti” nel mondo di oggi. Finisci con l’affermare
che “trascorrere un periodo di ritiro spirituale nel convento di
Montefiolo è un’avventura entusiasmante”.Forse, senza
volerlo, hai suggerito qualche cosa di cui il mondo di oggi ha estremamente
bisogno: luoghi e tempi dello spirito dove riflettere e ritrovare la bellezza
e la necessità di valori indispensabili per ritrovare se stessi
ed il senso del loro vivere. Forse in qualche luogo che per la sua bellezza
e la sua pace potrebbe definirsi un paradiso terrestre, l’uomo d’oggi
potrebbe sentirsi interpellato dalla voce divina:- Adamo,dove sei?- Si
accorgerebbe allora di essersi troppo allontanato da Dio e sentirebbe
la necessità di ritornare dal Padre che lo aspetta con amore infinito.
In
quei quattro indimenticabili giorni avrei voluto parlarti più dettagliatamente
di Montefiolo, ma non abbiamo avuto molto tempo. Mi propongo di farlo
nella prossima lettera. Con i miei più cordiali saluti
Sr.
Beatrice
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Cara
Fausta, mantengo la promessa di parlare un po’ con te di questo
Montefiolo che ha entusiasmato te, ma non solo te. Tutti quelli che per
la prima volta vengono su questo colle che sorge nel cuore della Sabina
ne rimangono affascinati ed esclamano:” Ma questo è un paradiso!”.
Perché, si, la bellezza del panorama desta ammirazione, stupore,
ma c’è qualche cosa di più in questo luogo. La varietà
del paesaggio si compone in una serena e ridente armonia da cui si diffonde
una quiete, un senso di pace che ti prende e ti conquista. Il silenzio
è profondo ed è come se tutto fosse impregnato di divino.
Tu ti senti subito in un altro mondo, forse quello cui tutti aspirano.
E mentre lo sguardo s’inalza fino alla cima dei secolari cipressi
che caratterizzano questo luogo,
pensi davvero che esse sono come il dito di Dio puntato verso il cielo!
Ma questa potrebbe essere anche la definizione di tutto questo colle e
della Casa benedettina che sorge sulla sua cima: un dito di Dio che punta
verso il cielo. Penso che questo significhi una comunità orante
posta su questo colle. La vista che si ha da Montefiolo nelle giornate
serene è delle più impressionanti. In direzione di mezzogiorno
appare all’orizzonte la cupola di S.Pietro.Verso ponente Monte Mario
e le alture fino al Soratte,maestoso,e poi in lontananza il Monte Amiata.
Seguitando a volgersi verso settentrione, lo sguardo incontra il Vacone,
i monti Martani, e a levante i Sabini con il loro manto sempreverde di
elci e di ginepri, culminanti col Pizzuto coronato di faggi. Poche altre
alture,vicine a Roma offrono un simile orizzonte, ma nessuna offre la
visione di pace che questo luogo offre. Ed è come se una storia
plurisecolare sia passata senza lasciare i suoi profondi inesorabili solchi
su questa terra che sembra conservare intatto l’incanto di una originaria
bellezza. Eppure la storia è passata attraverso tanti secoli..
Ne parlano i ruderi di ville romane dell’epoca mimperiale sparsi
nelle pendici meridionali di Montefiolo. Sulla cima del monte deve essere
stata costruita una rocca, venuta in proprietà dei figli di un
certo Ugone, per cui il colle intero fu chiamato “ mons filiorum
Ugonis” donde deriva il nome attuale.
Di questa rocca rimanevano soltanto le rovine nel 1391,quando l’allora
proprietario del colle, Giovanni di Sant’Eustachio, ne fece donazione
al comune di Aspra (oggi Casperia), con l’obbligo di costruirvi
una chiesa e la casa per due preti. Un cittadino di Aspra, Francesco Massari,
tesoriere della Camera Apostolica durante i pontificati di Giulio III
e di Marcello II, dispose nel suo testamento che venisse restaurata ed
abbellita con affreschi.la chiesa di Montefiolo dedicata al Salvatore.
L’abitazione annessa a tale chiesa fu ampliata e trasformata in
convento di cappuccini all’inizio del Seicento, e tale rimase fino
al 1868, anno in cui ne divenne pro-prietario il comune di Aspra. Tre
secoli di grandezza spirituale hanno dato a questo colle un’aureola
di fede vissuta e di santità ! Nel 1882 il Collegio lombardo acquistò
il convento e compì grandi opere di restauro e di ampliamento.
Oggi a Montefiolo c’è una delle tre Case delle Benedettine
di Priscilla, la Casa della Risurrezione. Una casa per Esercizi Spirituali,
frequentata da molti laici e religiosi, desiderosi di un incontro con
Dio nella quiete e nel silenzio di questo luogo. Le Suore vivono qui il
loro carisma benedettino cercando di condividere e di diffondere la loro
esperienza di fede.Desiderosa di parlarne con te, lo farò nella
prossima lettera. Un caro saluto
Sr.
Beatrice
ANNUNCIAZIONE
DEL SIGNORE
Il
Vangelo odierno ci suggerisce una bellissima meditazione. Luca ci offre
un incontro irripetibile, una esperienza unica tra il Creatore e la creatura,
tra l'Essere e il nulla, tra il Padre e la figlia. Lo scopo è di
cambiare la storia e la situazione umana. L'iniziativa della novità
parte da Dio. "Rallegrati, o piena di grazia, il Signore è
con te". Non è un saluto o augurio qualsiasi, ma è
un invito gioioso e fiducioso. Un invito che esprime una novità
assoluta, una garanzia, una elezione. "Rallegrati, o piena di grazia..
Ci ricorda la consacrazione della Vergine, Ella è destinata per
una missione altissima, una missione universale. Con questo saluto Maria
trova un dono, una grazia, un mistero. Dio ha guardato l'umiltà
della sua povera creatura. La grazia che Eva ci tolse ci è stata
ridata in Maria. Di fronte al mistero la Vergine concepisce nel suo grembo
il Verbo del Padre, il Figlio si fa uomo e così l'Eterno entra
nel tempo, l'immenso si racchiude in un piccolo e fragile corpo umano,
l'invisibile diventa visibile, il Creatore si fa creatura, il Padrone
del cielo e della terra diventa un povero. "Rallegrati, o piena di
grazia,...". Dopo la certezza dell'angelo, la Vergine senza paura,
si apre a Dio, si consegna a lui, si fida di lui e dice: "Eccomi
sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto". Maria
manifesta totalmente la sua disponibilità, presenta il suo "sì"
con entusiasmo, con convinzione ma anche con la trepidazione. Maria si
umilia, si abbassa, diventa serva. La Vergine è felicissima di
prendere l'ultimo posto per fare nascere e servire la nuova umanità.
Nella sua umiltà diventa la Madre di Cristo, Madre della Chiesa.
Tutta l'esistenza di Maria, è un itinerario di libertà donata,
un perseverare nell'abbandono a Dio lasciandosi docilmente plasmare e
guidare da lui. Il suo “sì” in risposta all’offerta
divina e il cambiamento drammatico di vita che ne sarebbe seguito, mostrano
che la! venuta di Dio in mezzo a noi esige un cambiamento radicale. Ma,
cosa più importante, l’Annunciazione a Maria ci pone di fronte
ad una grande verità: ognuno di noi ha avuto un’“annunciazione”
personale. Nell'eccomi di Maria pensiamo all'ecco mia della nostra vocazione
cristiana o religiosa. Nel giorno in cui abbiamo risposto "sì"
al Signore che ci ha chiamato nella sua vigna, ci siamo impegnati a fare
di quel "sì" l'unica parola della nostra vita. Purtroppo
la nostra esperienza ci dice che accanto ai "sì" ci sono
stati anche dei "no". Il Signore però non ci abbandona.
Egli è fedele alla sua chiamata e per questo ogni giorno, in mille
modi, ci rivolge nuovamente il suo invito: "Seguimi", e attende
da noi una rinnovata risposta. Rispondere ogni giorno e in ogni situazione
il nostro "sì" al Signore, il "sì" della
libertà e dell'amore, significa lasciarlo libero di agire in noi.
"...chi perderà la propria vita per me... la troverà".
Maria accoglie il progetto di Dio con una disponibilità meravigliosa,
perfetta, è la serva del Signore. Non cerca gli onori, le soddisfazioni,
ma cerca soltanto accogliere la volontà, il progetto di Dio e di
essere un’umile sua serva. Dio ha un progetto per noi, un progetto
di salvezza, in progetto di amore, un progetto di comunione. Noi accogliamo
questo progetto con umiltà e generosità, in unione con Maria
e con suo figlio Gesù.
Padre
Matteo
VIA
CRUCIS
Introduzione
Gesù,
mio Signore, mi suggeriscono di parlare del tuo cammino sulla Via della
Croce. Ac-cetto il suggerimento, ma premetto che non sarà una cronaca
fatta da chi guarda da lontano. Camminerò accanto a Te, passo dopo
passo. Non sarà una passeggiata romantica, ma quel che importa
è stare con Te, fino all’ultimo respiro.
Prima stazione: Gesù è condannato a morte
Ho assistito al tuo processo. Se non avessi Te come punto fermo di riferimento
nella mia vita, sarei uscita da questo processo sconvolta, disorientata,
e mi sarei fatta travolgere a quell’ondata di relativismo che invade
il mondo di oggi. E’ stato certamente il più grande paradosso
della storia umana. L’errore che condanna la Verità. La cecità
delle più fitte tenebre che giudica la Luce. Una sola parola “crucifige”
è bastata per uccidere la Parola eterna. Da una parte il tumulto
di una folla che non sa quello che fa e dice, dall’altra il silenzio
eloquente di chi sa e tace. Si indagava sulla tua identità, subdolamente
ed astutamente, e TU l’hai rivelata col tuo silenzio. Sei tu re?
Sei tu figlio di Dio? Tacendo hai rivelato di essere il Giusto sofferente
che non risponde agli scherni ed agli insulti, perché si adempiano
le Scritture. Dominava Il silenzio fecondo di chi soffre e tace perché
si adempia il disegno del Padre. Cosa è la verità? La domanda
di Pilato rimbalza di secolo in secolo nella storia dell’uomo. Eppure,
come davanti a Pilato, la Verità sta davanti all’uomo di
tutti i tempi, ma l’uomo non la riconosce. Se la riconoscesse ne
sarebbe conquistato e sarebbe finalmente libero.
Seconda stazione: Gesù è caricato della Croce
Ed ecco la Croce, Signore! O mio Gesù, sono uomini o sono belve
feroci quelli che te la stanno caricando sulle spalle? TI guardo piena
di sgomento, per dirti che ti sono vicina, e vedo la tua espressione indefinibile.
Tutto ciò che un uomo può soffrire è dipinto sul
tuo volto: sei un vero uomo! Ma amiche tutto l’amore che solo un
Dio può provare: sei un vero Dio! Ed è tanto l’amore
che quasi non senti la fatica immane cui ti soppongono. “Il mio
giogo è leggero” hai detto. Ed ecco! Appena viene messo sulle
tue spalle lo strumento di tortura, un prodigio si offre agli occhi di
chi ti sta molto vicino ed ha acquistato uno sguardo di fede. Quel legno
ormai privo della linfa vitale naturale, viene ravvivato da un’altra
linfa che lo fa fiorire, fiorire all’infinito. O croce santa su
cui l’Amore sarà crocifisso per unire la terra al cielo,
noi ti adoriamo!
Terza stazione: Gesù cade per la prima volta
Ma
diventa troppo pesante anche per Te quel legno che porti sulle spalle!
Si carica di tutti i peccati del mondo e tu cadi quasi schiacciato da
quel peso; chi può aiutarti? Questa può essere solo l’impresa
di un Dio! E infatti Il Padre non ti abbandona, e neppure l’amore
di quanti vorrebbero aiutarti. Ma aiutarti significa anche non aggiungere
il peso dei propri peccati, e questo avviene solo se sorretti dall’amore
che fiorisce su quel legno. E ti rialzi perché la strada la devi
percorrere tutta,fino alla fine,un compito esclusivamente tuo in cui nessuno
può sostituirti
Quarta
stazione: Gesù incontra la Madre
Ma
adesso alza gli occhi, Signore, per vedere chi ti sta davanti! E’
la Madre tua! Aspetta solo che il tuo sguardo incontri il suo! Non è
il momento di parlare! Lei sta lì, impietrita dal dolore, solo
le labbra impercettibilmente si muovono per dire una sola parola: Figlio,
figlio mio. Non credo che, come dicono alcuni, stia ripensando alle antiche
promesse e un sentimento di delusione invada il suo cuore. no, lei è
tutta presa dal momento presente e da quel-lo che sta per accadere. Come
può una mamma sopportare questo peso, il peso della tua Croce?
Guardala, divinamente bella nel suo dolore! Deponi per un momento la croce,
avvicinati a lei, abbracciala, la tua Mamma, che sta soffrendo con te,
forse più di te Forse, abbracciandola, le infonderai l’intuito
dell’amore, perché senta che tu rimarrai sempre con lei!
Forse intuirà che le sue lacrime si fonderanno con il tuo sangue
per formare quel fiume d’amore che attraverserà il mondo
salvandolo. Forse la potrai far sorridere di speranza!
Quinta
stazione: Simone di Cirene porta la croce di Gesù
I soldati romani costringono quest’uomo a portare la croce, non
certo per amore tuo, ma perché temono che tu non possa arrivare
fino in fondo. Anche Simone è inconsapevole del valore che porta
sulle spalle. Sono strumenti di cui Dio si serve per eseguire il suo piano
di salvezza. O mio Signore,tu ci fai dono della tua croce, ci fai partecipi
della tua sorte; un dono che dobbiamo accettare con gratitudine,perché
il Padre l’ha scelta per te, figlio suo e perché chi non
prende la sua croce non è degno di te,( Mt 10, 38)
Sesta
stazione: La Veronica asciuga il volto di Gesù
Adesso una donna si fa strada fra i soldati che ti scortano; si avvicina
a te e , trepidante, delicatamente poggia un velo sul tuo volto per asciugare
le lacrime ed il sangue che lo coprono. E tu, Signore, le fai un dono
regale, il più bello che potevi fare! Tu dai sempre il centuplo!
Il tuo volto rimane impresso su quel velo! Ma cosa mai sta provando la
donna in quel momento! Vedo che stringe al suo cuore quel velo, stringe
a sé il tuo volto, quasi voglia lasciarlo impresso nel suo cuore.
E all’uomo di tutti i tempi. Veronica dirà che il più
piccolo atto di bontà, di delicata ed anche impercettibile attenzione
per il fratello che soffre, non è perduto: ogni volta la tua immagine
s’imprimerà nel cuore di chi fa il bene, rendendolo sempre
più simile a te; ogni volta un piccolo raggio del tuo amore si
diffonderà nel mondo per parlare di te ed affrettare la venuta
del tuo regno.
Settima
stazione: Gesù cade per la seconda volta
Sembra che le forze ti abbandonino sempre più, sembra che non ce
la fai ad arrivare fino in fondo! Cadi per la seconda volta, ma per la
seconda volta ti rialzi. Come sempre, sei un esempio per noi! Ci dici
di non lasciarci abbattere dalle forze del male che dilaga nel mondo in
tanti modi; ci dici di non scoraggiarci se ci sembra che siamo deboli
e sempre esposti alle cadute; ci dici che allora siamo forti, quando siamo
deboli, perché la nostra forza è l’amore del Padre
che vede e provvede. Tutto possiamo in Colui che ci dà forza, :
anche rialzarci e rialzarci sempre, perché se Dio è amore
non può essere un contemplatore passivo delle nostre cadute. Ci
esorti a non lasciarci sconfiggere dalla croce, a non lasciarci abbattere
dalle piccole morti quotidiane, perché a chi confida in te, tu
fai il dono di piccole quotidiane risurrezioni.
Ottava stazione: Gesù ammonisce le donne di Gerusalemme
Una
gran folla di popolo e di donne ti sta seguendo, Gesù; le donne
si battono il petto e fanno lamenti su di te. Sta per essere messo a morte
chi le ha riscattate, chi le ha valorizzate, dando loro una precisa identità
e un ruolo. IL ruolo delle donne è grande ai tuoi occhi, Signore:
esse hanno il ruolo di portare nel mondo il tuo amore e la tua tenerezza,
la tua compassione, in una sola parola, la tua “maternità”;
hanno il compito di portare la vita, darla alla luce, custodirla, difenderla,
farla giungere al suo pieno sviluppo. Darai loro il preciso, impegnativo
e splendido mandato di annunciare e testimoniare la tua risurrezione.
Il loro stesso pianto qui, in questo momento, ha valore di un annuncio
come espressione di dolore per le sofferenze umane, ma anche come protesta
contro una condanna ingiusta. TU le vuoi piene di amore e di tenerezza,
ma anche coraggiose e determinate quando i valori che contano sono molto
discussi ed in pericolo e quando c’è da riconoscere i segni
dei tempi. Vuoi soprattutto che esse si sentano responsabili per il futuro
dei loro figli.
Nona
stazione: Gesù cade per la terza volta
Per
la terza volta, Signore, ti vedo stramazzato a terra sotto il peso della
croce. Sei ormai sfinito, oltre i limiti delle tue forze, e questa tua
terza caduta è una dimostrazione evidente della tua incapacità
di proseguire. È un’umiliazione: sei a terra, hai bisogno
degli altri per rialzarti e andare avanti, dipendi dagli altri, non sei
più libero di muoverti come vuoi, inoltre sei pure schernito, maltrattato.
Potresti dire col Salmista:” Verme sono, non uomo!” Sei ridotto
a niente, annientato!. Ma è quello che volevi tu, sulla via che
hai scelto in piena armonia con la volontà del Padre. E’
appunto l’annientamento, la kenosis! Ma è allo stesso tempo
la piena realizzazione di te stesso: tu sei Amore, e in quanto Amore ti
stai realizzando in pieno; vuoi essere niente, perché l’uomo
sia fratello tuo, figlio di Dio. Signore, aiutaci a saper soffrire con
te e per te, ad accettare le umiliazioni per amor tuo, ma anche a rialzarci,
senza mai assolutizzare il dolore, perché la croce senza risurrezione
non ha senso!
Decima
stazione: Gesù è spogliato delle vesti
In un totale abbandono nelle mani del Padre, stai lasciando che gli altri
facciano di te quello che vogliono. Tu lasci che ti scherniscano, ti sputino
addosso, ti percuotano, ti mettano sul capo una corona di spine, adesso
ti stanno spogliando delle tue vesti. Reagisci solo quando ti danno da
bere vino mescolato con fiele: rifiuti di bere perché vuoi mantenerti
vigile onde poter accettare pienamente cosciente e liberamente le sofferenze
dell’agonia e la morte. Ti spogliano perciò delle vesti,
ma non riescono a spogliarti della tua dignità di uomo che non
può rinunciare alla sua libertà e alla sua coscienza nel
decidere e nell’agire. Ti lasci spogliare perché liberamente
e consapevolmente hai scelto di fare l’unica cosa necessaria: fare
la volontà del Padre in una perfetta unione con lui.
Signore, aiutaci spogliarci di tutto ciò che è contrario
alla tua volontà, aiutaci ad essere nudi del nostro io e delle
sue pretese che contrastano e contristano l’azione ed il trionfo
del tuo Santo Spirito in noi, aiutaci ad essere nudamente veri davanti
a te, fai che ci presentiamo al tuo sguardo così come siamo senza
nasconderci, senza vergognarci, senza inutili menzogne, inutili perché
tu ci scruti e ci conosci; sicuri che se ci presentiamo nudi tu ci rivesti
del tuo amore. Non voglio pensare in questo momento alla nudità
primigenia di cui l’uomo non si vergognava quando Dio passeggiava
nel giardino e lo chiamava amico. Penso piuttosto alla nudità battesimale
rivestita di grazia, per cui Dio ci chiama figli suoi. Signore, per la
ricchezza che hai voluto dare all’uomo lasciandoti spogliare delle
tue vesti, rivestici col tuo amore e la tua luce!
Undicesima
stazione: Gesù è inchiodato sulla croce
Ed ecco ora l’epilogo del grande dramma: stanno traforando le tue
mani con i chiodi che ti immobilizzano sulla croce, ed è come se
i chiodi penetrassero nel mio cuore tanto è insopportabile una
così inumana brutalità, una così grande ingiustizia!
Sono i piedi di chi ha camminato tanto per annunciare la buona novella,
sono le mani che si sono alzate solo per benedire, per perdonare, per
guarire, per ridare la vita! Due malfattori che hanno fatto solo tanto
male nella loro vita stanno su-bendo la stessa tua sorte. Non un grido
d’indignazione o una protesta si leva dalla folla che sta ad osservare;
dove sono tutti quelli che tu hai beneficato? Tante volte , proprio da
chi meno ci si aspet-terebbe, arriva la parola giusta. Solo uno dei due
malfattori,rivelando una inaspettata lealtà e nobiltà d’animo,
trova, pur nella sofferenza e nell’imminenza della morte, la forza
d’indignarsi: ”Noi giustamente siamo condannati, egli invece
non ha fatto nulla di male!...Gesù, ricordati di me quando entrerai
nel regno!” “Ricordati!”: In alto, sulla croce, risuona
la preghiera tipica del popolo eletto che prega chiedendo a Dio di ricordarsi
della sua benevolenza, della sua alleanza. In alto sulla croce, con questa
preghiera così semplice ed elevata allo stesso tempo,l’antica
alleanza sfocia come un fiume, nell’oceano infinito del nuovo patto
d’amore, in te, Cristo Signore, che prometti il paradiso! Intanto
ti insultano, ti provocano:”Salvi se stesso se è il Cristo
di Dio!” Ma tu rispondi rivolgendoti fiducioso al Padre, nella certezza
di essere in sintonia con il suo progetto:” Padre, perdonali perché
non sanno quello che fanno!” Ignoranza e perdono! Adesso dall’alto
della croce continui ad insegnare e a promulgare la legge del perdono!
Ci dici, in altri termini, perché dobbiamo perdonare settanta volta
sette,cioè sempre! Perché nessuno sa, nessuno conosce la
portata del male che sta facendo, altrimenti nessuno lo farebbe! Signore,
sono qui per non perdere nessuno dei tuoi ultimi istanti! Qui, in ginocchio
ai piedi della tua croce, cercando di cogliere nel cavo delle mie mani
qualche stilla del tuo sangue prezioso e non so dirti altro che :”Ricordati,
Gesù! Ricordati di me! Anche in me trovi tanto da perdonare! Ma
anche io sono spesso fra quelli che non sanno Ricordati di me che ti ho
tanto amato e sempre ti amerò !”
Dodicesima
stazione: Gesù muore sulla croce
Adesso tutto è compiuto. E’ buio su tutta la terra! C’è
ancora nell’aria l’eco della tua voce, una grande voce rivolta
al Padre! Cosa avrai provato, Signore, nel momento supremo del tuo passaggio
al Padre! Forse, per qualche istante, l’angoscia di un’abissale
solitudine per l’apparente lontananza del Padre, ma subito vinta
da quella totale fiducia in lui, che non ti ha mai lasciato, dalla tua
sicurezza di sempre, di essere in comunione con lui. Negli ultimi momenti
della tua vita ti insultavano, ti provocavano invitandoti a scendere dalla
croce per dimostrare di essere figlio di Dio; tu l’hai dimostrato
abbandonandoti totalmente nelle mani del Padre. Non dimostrando straordinarie
capacità acrobatiche, ma solo mostrando l’amore di un figlio
che confida nel Padre hai dimostrato l’essenza della tua regalità
e della tua figliolanza. Ti dico sinceramente che non ho potuto piangere
su di te, perché la tua non era una morte, era una teofania che
mi riempiva di spavento, ma, superato questo, mi riempiva di stupore,
di gioia, mi rapiva: mentre il velo del tempio si squarciava, la terra
si scoteva, le rocce si spezzavano, i sepolcri si aprivano, si svelava
la presenza di Dio! Ma anche gli altri erano presi da grande timore mentre
dicevano: “Davvero costui era figlio di Dio!”. Ai piedi della
croce la più vicina era la Madre tua: Colei che aveva colto il
primo respiro del figlio, era lì ad accogliere l’ultimo battito
del suo cuore. C’erano molte donne che ti avevano seguito per servirti,ma
stavano ad osservare da lontano; io sono rimasta ai piedi della croce:
avevo la sensazione che tu non ti eri allontanato, ma eri più vicino
di prima!
Tredicesima
stazione: Gesù è deposto dalla croce
Sono rimasta lì a contemplare il tuo corpo straziato e senza vita,
fino a quando un uomo au-torevole del sinedrio,Giuseppe di Arimatea, “che
aspettava anche lui il regno di Dio”, è venuto a calarti
giù dalla croce. C’era lì tua Madre ad accoglierti
fra le sue braccia; ti stringeva al suo cuore, ti contemplava, piangendo
ti parlava. Per il rispetto di tanto dolore non osavo avvicinarmi: sentivo
che era un dolore sacro, davanti a cui bisognava solo inginocchiarsi e
pregare. Nel guardarla provavo una sensazione strana: mi sembrava di vedere,riflesse
sul suo volto, una dopo l’altra le sequenze ndella tua vita, della
tua storia. Forse proprio in quei momenti riviveva più che mai“
gli eventi conservati e meditati nel suo cuore”: l’annuncio
dell’Angelo, la tua prodigiosa nascita, la profezia del vecchio
Simeone, il fanciullo smarrito e ritrovato che cresceva in età
e sapienza diventato poi il Maestro seguito dalle folle. Possibile che
tutto sia finito cosi? Forse quel grande amore che l’aveva legata
e la legava a suo figlio.
Quattordicesima
stazione: il corpo di Gesù è deposto nel sepolcro
Adesso è proprio la fine: anche il tuo corpo viene sottratto al
nostro sguardo da una pesante pietra sepolcrale. Chi mai potrà
rotolare via questo masso dall’ingresso del sepolcro? Niente di
più triste che un sepolcro definitivamente chiuso! Perché
continuare a vivere adesso? La mia ragion d’essere è sepolta!
Con una tristezza infinita poggio la mia fronte su quel masso duro e freddo.
Possibile che l’ingiustizia, l’odio, la menzogna abbiano definitivamente
il sopravvento? E non mi decido a lasciare questo posto: mi sembra che
,pur davanti ad una tomba sepolcrale, io sia vicina ancora al mio Signore!
E poi una certa speranza incomincia a ridarmi vita: non posso credere
che non lo rivedrò più. E mi trattengo così fino
all’alba. Quando il cielo incomincia a tingersi di rosa vedo qualcuno
che arriva e si avvia decisamente al sepolcro. La riconosco: è
Maria di Magdala tante volte incontrata presso il comune punto di riferimento.
Ed è lei che per prima vede il masso ribaltato: il sepolcro è
vuoto! A me basta questo, perché alla speranza che era andata via
via aumentando, subentra adesso quella certezza interiore che si chiama
fede. La pietra ribaltata, il sepolcro vuoto, le bende per terra: Vedo
e credo, come farà Giovanni poco dopo. Il Signore vive! Una gioia
ed una pace infinita inondano il mio cuore. Sento e sono certa che vive
e che è qui accanto a me come pri-ma, più di prima!
Suor
Beatrice
LA SOLENNITA' DI PENTECOSTE
La
solennità di Pentecoste, che celebriamo oggi, chiude il lungo periodo
del tempo pasquale. La discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli e la
Vergine Maria, riuniti nel Cenacolo, apre le porte alla missionarietà
della Chiesa e alla testimonianza della fede cristiana in tutto il mondo.
Il dono dello Spirito, infatti, rende coraggiosi e zelanti i pavidi apostoli
che ancora avevano paura di affrontare il mondo nel nome di Gesù,
crocifisso, risorto e asceso al cielo. Il brano del Vangelo di Giovanni
ci riporta a questi contenuti essenziali della Solennità della
Pentecoste. E' proprio vero che il Vangelo non ha confini ed a chi si
predispone semplicemente ad accoglierlo esso apre nuovi orizzonti di comprensione
sulla persona umana e sulla storia stessa dell'umanità. E' l'orizzonte
di Dio, della fede, della speranza, della carità.
E' l'orizzonte dello Spirito che invochiamo di venire tra noi per ridarci
speranza e gioia nella fede, come ci rammenta la sequenza che letto oggi
nella liturgia della Parola. Chi si immerge nello Spirito Santo deve vivere
secondo lo spirito e i frutti dello spirito sono enumerati in modo dettagliato
dall'Apostolo Paolo nel brano della Lettera ai Galati che ascoltato oggi.
Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza,
bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste
cose non c'è legge. Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno
crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se pertanto
viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito". La nostra
Pentecoste, che già abbiamo celebrato nel sacramento della Confermazione,
necessita di essere vissuta, come il Battesimo, ogni giorno, rispondendo
appieno a quelle che sono le esigenze di una fedeltà assoluta al
Vangelo di Cristo, al quale abbiamo liberamente aderito. Bisogna davvero
camminare secondo lo spirito, privilegiando nella nostra vita e nei rapporti
con gli altri i valori che contano e che esprimono in modo evidente l'essere
credenti e l'essere cristiani davvero. Amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza,
bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé, apertura
agli altri devono essere il decalogo spirituale di ogni cristiano, soprattutto
in questi nostri tempi segnati da un crescente distacco dal sacro e dallo
spirituale e sempre più caratterizzati come tempi dissacranti e
materialistici a tutto campo. Lo Spirito Santo ci faccia dono di questa
radicale trasformazione della nostra mente e del nostro cuore, perché
possiamo pensare ed agire secondo lo spirito e non secondo la carne che
porta all'egoismo, all'odio e assenza di ogni gesto d'amore e di misericordia
nella nostra ed altrui vita, se vissuta lontano da Dio, che per sua natura
è amore e carità in termini perfetti ed assoluti. Nell'amore
e guidati dall'amore, ovvero da questo potente fuoco che arde, se c'è
davvero dentro di noi, può scaturire solo il bene, l'armonia e
la pace per tutto il genere umano, al quale è rivolto il messaggio
di speranza che ci viene dalla celebrazione annuale della solennità
della Pentecoste.
Di questi frutti ha bisogno il mondo intero. La Pentecoste è l'inizio
della Chiesa, ma anche l'inizio di un nuovo mondo. Ebbene, anche in questo
inizio di millennio il mondo sta alle porte in attesa di una nuova Pentecoste.
Lo Spirito Santo, come quel giorno di Pentecoste, è effuso anche
su di noi perché usciamo dalle nostre grettezze e dalle nostre
chiusure e comunichiamo al mondo l'amore del Signore. Anche a noi sono
dati in dono la "lingua" del Vangelo e il "fuoco"
dello Spirito, perché mentre comunichiamo il Vangelo al mondo scaldiamo
il cuore dei popoli avvicinandolo al Signore.
Lo Spirito Santo è donato a noi e non smette di operare in ciascuno
di noi. Lo Spirito Santo, che è amore, ci spinge all’esercizio
di tutte le virtù per farci giungere alla completezza dell’amore
cioè alla santità. Lasciamoci guidare all’amore dallo
Spirito Santo affinché tutti gli uomini, attraverso la nostra testimonianza,
riconoscono Gesù come il cristo, il Figlio di Dio, e abbiano la
vita nel suo nome.
Essendo guidati dallo Spirito siamo figli di Dio, Liberi coraggiosi. Nel
Nostro cammino spirituale con ci lasciamo fermare da un nessun ostacolo,
andiamo sempre avanti, con un progresso continuo di fede, speranza e carità.
Tutto questo viene concesso a ogni cristiano. Ma occorre essere docili
allo spirito, occorre meditare, con il suo aiuto la parola di Dio e occorre
essere docili allo Spirito anche nella vita concreta, nella vita di servizio
e di dedizione a Dio e ai fratelli.
Don
Matteo
UNA GIORNATA DI GESU' Omelia dell'8 febbraio 2009
La
Parola di Dio di questa quinta domenica del tempo ordinario ci presenta
Gesù alle prese con la sofferenza ed il dolore umano, nei confronti
dei quali si mostra sensibile ed interviene con le sue, unicamente sue,
straordinarie possibilità per sollevarli. La guarigione della suocera
di Pietro, ma anche di tanti altri malati che si presentavano a Lui, ci
conferma questa speciale attenzione di Gesù nei confronti della
sofferenza umana. Il testo del Vangelo di Marco che letto oggi ci presenta
appunto Gesù Cristo che passa di villaggio in villaggio non solo
per predicare, ma anche per guarire. Segno evidente che evangelizzazione
e promozione umana camminano insieme nel progetto messianico e ad esse
bisogna ispirarsi anche oggi. Non solo annuncio, catechesi e prediche,
ma azione, condivisione, prendersi cura delle afflizioni degli altri e
nei limiti delle possibilità di ciascuno dare il nostro contributo
per risollevare dalla miseria materiale, morale e spirituale e dai dolori
di ogni genere qualsiasi fratello. E ciò senza fare distinzione
di razza, colore di pelle, cultura e religione. La carità non ha
barriere e l'amore verso i fratelli non guarda la tessera di appartenenza.
Il testo evangelico oggi ci fa riflettere sullo stile di Cristo per venire
incontro ai bisogni delle persone che soffrono.
Esso mette in evidenza il fatto che tutti cercavano Gesù. Sicuramente
il contesto ci fa pensare ad una ricerca mirata e per motivi ben precisi:
quelli della guarigione fisica. Gesù non viene meno a queste richieste,
anche se chiede in cambio una risposta di fede. Ad ogni guarigione infatti,
quando tutto è completato, dice infatti "la tua fede ti ha
salvato". La fede fa miracoli anche nelle guarigioni che chiediamo
per noi e per gli altri, specie oggi di fronte a mali terribili ed incurabili,
che fanno soffrire in modo tremendo, bambini, giovani, adulti ed anziani
o più semplicemente persone innocenti. Il mistero del dolore si
comprende alla luce del mistero della Croce di Gesù. Lo ricordiamo
nella preghiera iniziale di questa eucaristia domenicale: "O Dio,
che nel tuo amore di Padre ti accosti alla sofferenza di tutti gli uomini
e li unisci alla Pasqua del tuo Figlio, rendici puri e forti nelle prove,
perché sull'esempio di Cristo impariamo a condividere con i fratelli
il mistero del dolore, illuminati dalla speranza che ci salva". Esempio
di vita in questo senso è anche la figura di Giobbe, che la liturgia
della parola oggi ci presenta Il suo pensare e sentire lo troviamo sintetizzato
in questo testo: "Non ha forse un duro lavoro l'uomo sulla terra
e i suoi giorni non sono come quelli d'un mercenario? I miei giorni sono
stati più veloci d'una spola, sono finiti senza speranza. Ricordati
che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più
il bene". Esempio di sopportazione nella prova e modello di santa
pazienza, tanto da essere preso ad esempio nell'esercizio di questa virtù
umana e cristiana, Giobbe ci rammenta la necessità di guardare
la sofferenza e la prova nell'orizzonte dell'eternità. Anche le
più grandi pene termineranno, perché la morte solleverà
dal dolore ogni essere vivente. Quelle notti di dolore che toccarono a
Giobbe, toccano tante volte anche a noi. Notti insonni per problemi fisici,
morali, interiori. Ma ogni notte prepara al nuovo giorno. E così
con la speranza nel cuore che il domani sarà migliore si accetta
con coraggio ogni prova della vita.
La giornata di Gesù era operosa "al mattino si alzò
quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo
deserto e là pregava. Gesù è impegnato in un'attività
incessante, ma sa anche prendersi il tempo per stare con Dio nel silenzio
e nel raccoglimento. Non è una fuga dal mondo per godersi un po'
di tranquillità, ma è il bisogno di "perdersi"
tra le braccia di suo Padre abbandonandosi al colloquio filiale con Lui.
"Pregava": il tempo del verbo (imperfetto) indica un'azione
prolungata. Gesù ha tanto da fare, ma per Lui la prima cosa da
fare è la preghiera. E' qui che con suo Padre rivede il proprio
programma e comprende che non può legarsi a nessun luogo né
lasciarsi cat-turare dalla gente di Cafarnao, che lo cerca per i vantaggi
che ne riceve. Nella preghiera Gesù trova la luce e la forza per
riscegliere il primato della missione. La preghiera è come luce
che illumina il tempo, il nostro tempo: la vita con le sue inevitabili
zone d'ombra e, di essa, feconda e rende chiari anche gli spazi aridi,
le solitudini dolorose, radicandovi la presenza di Dio, che, solo, può
risanare e dar gioia anche nell'afflizione più amara.
In Cristo si manifesta tutta la compassione di Dio per l’umanità.
Egli si pone al nostro fianco in tutte le nostre sofferenze, tanto che
possiamo dire con certezza che non c’e sofferenza umana che non
sia condivisa da Dio. Se andiamo da Dio con le nostre ferite, se accettiamo
di lasciarci prendere per mano da lui, sperimentiamo in noi una trasformazione
, un processo di risanamento che va oltre la salute del corpo e fa della
nostra vita un rendimento di grazie e un annuncio gioioso del suo amore.
Essere davvero guariti, infatti, è appartenere completamente a
Dio e consacrarsi totalmente al servizio dei fratelli, senza riserve.
Illuminata dalla fede nessuna sofferenza è inutile ma è
una preziosa e privilegiata partecipazione alla missione stessa di Cristo
per la salvezza e la santificazione del mondo.
Don
Matteo
AI CARI NOSTRI GIOVANI DEL TERZO MILLENNIO
E A TUTTI VOI FRATELLI DAL GIOVANE CUORE
“Scrivo
a voi, figlioli, perché vi sono stati rimessi i peccati in virtù
del Suo nome! Scrivo a voi giovani,perché avete vinto il maligno”.
( Giov. “, 12-14)
Quando dici figlioli dici bambini,ragazzi,giovani e… gente di ogni
età, perché poi nella sfera fisica,con il passare degli
anni la paternità umana ha diversi gradi, a poco a poco essa sfuma
nella fraternità e infine, nella vecchiaia si fa quasi figliolanza
perché sono i figli a prendersi cura dei genitori come ricorda
il libro del Siracide:- “Figlio soccorri tuo padre nella vecchiaia…
(3,12). Dire bambino, giovane… è come dire: gioia, giovinezza,bellezza,
primavera! Essi sono veramente i profeti dell’innocenza dell’armonia
,della felicità, veri araldi di un mondo nuovo e... tutti vorremmo
essere così…Sei miliardi di figli vestiti di speranza muniti
di lampade accese avanzano verso la Casa dell’unico PADRE! Perduta
la vita, ritrovati i valori abbracciano, figli e fratelli, il terzo millennio
avvolto di luce e di pace e adorano il Salvatore. A ciascuno di noi Gesù
dice: “Lasciate che i piccoli vengano a me… di essi è
il regno dei cieli …” e annuncia grandi guai a chi scandalizza
uno di questi piccoli!
E che diremo? Il nostro mondo e pieno di queste miserie ed ecco cos’è
che guasta le feste:- il peccato! Un filosofo persiano scrisse:- “Quando
nacqui trovai una coppa la bevvi e in fondo trovai la perla della gioventù.
La giovinezza mi offrì una coppa scintillante, la vuotai e trovai
il rubino dell’amore. L’amore mi diede un’altra coppa,
la bevvi e in fondo trovai il diamante del dolore. Anche il dolore mi
offrì una coppa, bevvi disperato fino all’ultima goccia!
Gioia suprema!… Vi TROVAi DIO!! “Ecco il progetto del PADRE
BUONO che crea i suoi capolavori e li custodisce. Li
segue, li ama appassionatamente:“Facciamo l’uomo a nostra
immagine e somiglianza…” (Gen.1,26) e così avvenne.
Ce lo dice bene anche Trilussa in una sua buffa poesia:
Iddio pijò la fanga dar pantano,
formò un pupazzo e je soffiò sur viso
Er pupazzo se mosse a l’improviso
E venne fora subito er cristiano
Ch’aperse l’occhi e se trovò ner monno
Com’uno che se sveja da un gran sonno.
Quello che vedi è tuo-je disse Iddio
E lo potrai sfruttà come te pare:
te do tutta la terra e tutto er mare
meno ch’er Celo,perché quello è mio!
Peccato disse Adamo.E’ tanto bello…
Perché num m’arigali puro quello?
Ecco
dunque questo gigante della terra che se anche è alto solo un palmo
incarna la virtù di Dio come Dio incarnerà la debolezza
dell’uomo ingannato dall’angelo ribelle.Satana sì,
voleva che il Cielo non fosse mio, povero diavolo tentatore ma non sapevi
che DIO è AMORE? E… noi siamo nati per cantare la Sua gloria!
E… il cantore, dice Sant’Agostino, diventa ,egli stesso lode
del suo canto. Ed è solo il sapersi amati e ritenuti importanti
da Colui che ci conosce fino in fondo che scioglie il nostro canto di
festa. Sant’Ireneo dice che: “ L’uomo che vive è
la gloria di Dio” Sono la Fede, la Speranza, la Carità e
la preghiera che ci rendono vivi e felici. che ci fanno vivere nel nostro
“Già” il “ NON ANCORA” dell’eternità!
Sì, l’uomo che vive è la gloria di Dio, è una
PREGHIERA VIVENTE che ama l’AMORE, respira l’eterna Sua vita,
ringrazia, confida, ripara, intercede! Rimane beato e smarrito nel Suo
VERBO POTENTE E INFINITO qui in terra e nel Cielo ove Dio è la
gloria dell’uomo!…
Resto con voi figli .fratelli e padri. Insieme adoriamo e ringraziamo
il DIO-AMORE e con la Vergine Madre cantiamo:- “MAGNICAT”…
Si faccia di me secondo la Tua PAROLA!
Saluto tutti e ciascuno di voi con l’antico, gioioso augurio pasquale:“Gioia
mia il Signore è veramente risorto!” Amen, Alleluia!!
Suor
Maria Bernarda Monfelli Benedettina di MONTEFIOLO
Per tutti quelli che credono che le utopie siano strade percorribili
OggettInstabili\2 MOTI URBANI STAZIONIMPOSSIBILI
Domenica 27 dicembre alle ore 18.00 a Palazzo Nicotera (Piazza Tommaso
Campanella), a Lamezia Terme in provincia di Catanzaro, sarà presentato
il catalogo della mostra “Moti urbani Stazioni impossibili”,
edito dalla prestigiosa casa editrice Silvana Editoriale e curato da Caterina
Misuraca e Carlo Carlei. Si tratta di centodieci pagine a colori per un
design ricercato con una nota critica di Alberto Fiz direttore del Marca
(Museo delle Arti di Catanzaro). La manifestazione, che si è tenuta
dal 6 al 20 giugno scorsi, ha coinvolto centinaia di artisti e architetti
italiani e non per un totale di ben 71 opere, tutte catalogate nel prestigioso
volume (patrocinato dalla Regione Calabria, Provincia di Catanzaro, Comune
di Lamezia Terme e Ordine degli Architetti di Catanzaro) che sarà
distribuito in tutta Europa nei più importanti musei, librerie,
book shop di gallerie. Moti Urbani StazionImpossibili rappresenta
il secondo grande evento di successo ideato dall’Associazione culturale
400KC, che dal 2007 promuove la manifestazione divenuta ormai un punto
d’eccellenza per l’arte contemporanea e l’architettura
italiana: OggettInstabili che si conferma anche attraverso la partecipazione
di grandi nomi a confronto con giovani emergenti italiani e non, un insolito
e importante laboratorio di ricerca sul contemporaneo. Ricordiamo che
il primo appuntamento accese i riflettori sul Pontile ex Sir, costruito
negli anni Settanta, mai messo in funzione e ad oggi simbolo di un eclatante
fallimento industriale. Questa volta attenzione puntata ad un’altra
questione urbanistica: la mobilità. Attraverso l’analisi
delle quattro stazioni urbane di Lamezia. Da qui la città fotografata
nel suo “immobilismo” e un intento culturalmente bellicoso:
“Moti Urbani StazionImpossibili”. Quattro stazioni urbane
degradate simbolo di un “movimento fermo” e l’arte per
tracciare binari senza confini, per andare oltre la contingenza del visibile,
per disegnare rotte mutanti, impossibili. Un libro straordinario, da non
perdere per chi ama l’arte, l’architettura, il design …
e per tutti quelli che credono che le utopie siano strade percorribili.
Avendo visitato con molta attenzione la mostra in questione, posso affermare
che è stato un modo di riflettere sulla città e di vederla
con occhi nuovi…e più creativi! Vi consiglio pertanto di
regalare in occasione del Santo Natale questo libro a chi ama l’arte,
l’architettura, il desing e a chi ancora non li ama per imparare
a farlo.